Sono
due le caratteristiche che mi hanno particolarmente colpito di Omar
(nome di fantasia), un ragazzino di quindici anni proveniente dal
Marocco: nel corso del nostro colloquio mi dice che non ha mai avuto
paura quando, con una certa frequenza, armato di un taglierino,
rapinava persone, e che non ha mai pensato che continuando a
delinquere prima o poi sarebbe stato arrestato e portato in un centro
di detenzione. Sorride Omar, pensando alla faccia terrorizzata delle
sue vittime e a me che, con una certa insistenza, gli chiedo se si
fosse mai posto il problema che qualcuno avrebbe potuto reagire in
maniera anche violenta alle sue aggressioni, oppure che nel corso di
una rapina sarebbe potuto intervenire un carabiniere e arrestarlo,
così come poi è avvenuto. Lui si è sempre sentito sicuro di sé. "Erano
gli altri – mi dice compiaciuto di se stesso e col volto rilassato
di chi crede di sapere tutto della vita – ad avere paura". Omar
non ha mai pensato al carcere; per lui è stato un duro colpo mettere
per la prima volta piede in Istituto, dove ha dovuto familiarizzare
con celle, poliziotti, sbarre e con una serie di regole che lo
obbligano a seguire una precisa scaletta quotidiana fatta di pasti,
studi, colloqui, lezioni, svago e riposi. Una scaletta predisposta e
decisa da altri, e che consente a poliziotti e operatori di seguire
passo dopo passo la vita dei ragazzi all'interno dell'Istituto: in
qualsiasi momento della giornata, a tutti è possibile sapere dove e
cosa sta facendo ogni detenuto, anche se fisicamente non lo si vede.
Non meraviglia, allora, se la libertà è un chiodo fisso per Omar,
prima ben inserito in un gruppo di immigrati nordafricani che
spacciava e faceva uso di sostanze, e, soprattutto, abituato ad
andare dove voleva e a fare quello che gli piaceva perché in tasca
portava un taglierino sempre pronto all'uso.
[Tratto dal libro "Liberi relusi. Storie di minori detenuti", pp. 95-96]