Un’esperienza lavorativa che mi ha dato molto sotto il profilo umano, l’ho fatta quando per circa un anno ho lavorato come responsabile del personale, in una cooperativa che ha gestito un reparto di una Fonderia a Quinto di Treviso. Lavoravo a stretto contatto con gli immigrati e mi rendevo conto che era facile etichettarli come delinquenti o, comunque, definirli come persone poco rispettose delle nostre regole di convivenza e di reciproco rispetto. Al tempo stesso, però, non potevo fare a meno di cogliere un dato di fatto: senza il lavoro degli immigrati molte aziende del mitico Nordest avrebbero dovuto chiudere. Del resto, nel reparto della Fonderia gestito dalla cooperativa, a parte il capo officina e il responsabile della produzione lavoravano solo immigrati. Da dove provenivano queste persone? Erano uomini del Senegal, Nigeria, Burkina Faso, Ghana, Marocco, Tunisia, Algeria, Bangladesh, Albania e Polonia. Dove dormivano? Qualcuno in qualche casa abbandonata, altri al dormitorio comunale di Treviso in via Monterumici poi chiuso; qualcuno era ospite in qualche canonica. I più fortunati dividevano un fatiscente alloggio con cinque o dieci connazionali. Sul contratto di affitto veniva scritto che pagavano cinquecentomila lire al mese, in realtà erano tenuti a versare in nero una cifra molto più cospicua, a volte il doppio. Questi uomini lavoravano anche dieci ore al giorno in un ambiente ostico ai trevigiani. Gli immigrati, però, lavoravano e la Fonderia continuava a ricevere nuove commesse a beneficio del proprio fatturato. “Scusate se esisto”, è quanto può dire un immigrato che dopo dieci ore di lavoro varca il cancello della ditta e si vede negare la possibilità di fare una doccia, oppure si sente osservato mentre beve qualcosa di caldo in un bar. “Scusate se esisto” e ciò che leggo sul volto delle persone che pazientemente attendono il proprio turno, in lunghe file, davanti ad un ufficio pubblico per ottenere una “carta”, un documento tante volte incomprensibile sia per ciò che vi è scritto che per la sua finalità. Più volte è stato detto e scritto che i trevigiani dicono sì all’arrivo di nuovi foresti finché questi restano confinati nelle fabbriche a lavorare; quando però escono dalle aziende per vivere, perconoscere la città dove risiedono e dove sperano di realizzare i propri sogni, allora diventano un problema.
In quel periodo, come del resto anche oggi, erano molto accese le polemiche sugli extracomunitari e qualcuno suggeriva che forse era meglio far venire giovani dal Sud Italia. Anch’io, per altri motivi, accarezzavo quest’idea e più volte tentai di far venire qualche ragazzo in modo da soddisfare le richieste di operai che mi arrivavano da diverse aziende della Marca. I miei sforzi, però, non venivano premiati, e questo non perché la paga era considerata inadeguata e c’erano grosse difficoltà nel reperire alloggi. Il problema vero era un altro: se per molti veneti i meridionali sono tutti malfattori e terroni, per molti meridionali i veneti sono altro che dei bifolchi arricchiti che si considerano superiori agli altri solo perché hanno il portafoglio gonfio. Reciproche diffidenze!
Durante il periodo in cooperativa ebbi modo di conoscere Frank Agyare Badu, era del Ghana, e quando è morto un giornale locale ne ha dato la notizia col titolo “Avvocato in Ghana, senzatetto al Sant’Artemio: muore a 45 anni”. Ho l’articolo del giornale sempre sotto gli occhi avendolo conservato sotto la lastra di vetro che copre la mia scrivania in ufficio. La storia di Frank è simile a quella di molti immigrati che dopo la perdita del lavoro e con un alloggio precario restano soli, tanto soli da considerarsi degli appestati e solo l’alcool sembra attenuare quella disperazione che li consuma fino alla morte.
Sempre in cooperativa conobbi un ragazzo albanese, Valentin. Lavorava anche dieci ore al giorno e sempre contento se c’era la possibilità di tornare in officina il sabato mattina a fare del lavoro straordinario. Sperava di sistemarsi definitivamente in Italia, trovare una casa e sposarsi perché, in fondo, “Cu’ è picciutteddu nun è puvireddu”. Purtroppo con altri connazionali ha perso tragicamente la vita in un incidente stradale sulla Feltrina.
A Treviso gli immigrati fanno sempre notizia quando si rendono colpevoli di delitti. Le loro storie personali, le loro speranze, le paure che hanno e le sofferenze che provano, trovano invece sempre difficoltà ad essere recepite, comprese e, perché no, anche valorizzate. A tanti conviene la presenza a Treviso di uomini e donne che non parlano bene l’italiano, divisi tra loro e facili da manipolare, come fece un’agenzia interinale nel 2002 che per diverse aziende arrivò anche a reclutare immigrati clandestini, riuscendo così ad abbattere in maniera considerevole costi, tasse, contributi Inps e Inail. Anche in quell’occasione la notizia non fece tanto clamore, o comunque non ebbe l’attenzione che meritava, e questo perché non fa mai piacere portare dei trevigiani sul banco degli imputati. In fondo, però, Treviso non è altro che una città di provincia dove, all’occorrenza, tutti sanno tutto di tutti, e questo aspetto, ovviamente, terrorizza quanti ogni giorno si sforzano di costruire e vendere la propria immagine di persone trasparenti, concrete, oneste e affidabili. [Carlo Silvano]