L'ANGELO DI VIA APPIANI
"L'angelo di via Appiani" racconta un frammento di vita del ghanese Frank Agyare Badu. Laureato in giurisprudenza, Frank era emigrato circa 20 anni fa dal suo paese in cerca di fortuna. Prima era stato in Gran Bretagna, in seguito è venuto in Italia. Ha lavorato, tra l'altro, in una Fonderia ubicata in provincia di Treviso svolgendo i lavori più umili e pesanti. E' morto a Treviso, nel 2003, all'età di 45 anni in un letto dell'ospedale Ca' Foncello consumato dall'alcool e dalla disperazione. Come tanti immigrati non era riuscito a trovare un alloggio e negli ultimi tempi stava in un padiglione dell'ex manicomio Sant'Artemio, occupato abusivamente da extracomunitari.
George crede negli Angeli e di sabato capita spesso di incontrarlo su una panchina di villa Manfrin o di incrociarlo lungo la Restera. Tra le mani ha sempre lo stesso volume: la copertina sgualcita e le pagine ingiallite di un libro che parla di come gli angeli siano vicini ad ogni uomo durante il suo pellegrinaggio terreno. George legge e medita e vorrebbe far partecipi delle sue riflessioni altre persone; mastica purtroppo un cattivo italiano. Gli unici che possono comprenderlo bene sono i suoi connazionali del Ghana, con i quali ha trovato rifugio in un fabbricato abbandonato in via Appiani. La sera, dopo il lavoro, al riparo da fatiscenti muri coperti da erbacce e ricchi di nascondigli per ratti e insetti, mentre su un fuoco acceso con rami secchi cucinano il riso in una vecchia pentola nera, i ghanesi seduti sulla nuda terra ascoltano George: il suo viso si illumina al chiarore delle fiamme e lui accompagna ogni parola che pronuncia con ampi gesti delle mani. George parla, è convinto di ciò che afferma, loro ascoltano estasiati e senza staccargli gli occhi da dosso cacciano di continuo le zanzare che li tormentano ogni notte.
Durante il giorno George lavora in una fonderia: a lui spettano i lavori più umili come lavare i servizi igienici. Impegno e volontà ne mette tanta il ghanese che arriva a un metro e sessanta centimetri di altezza ed è nero come il carbone, ma i bagni dovrebbero essere stati rifatti da un pezzo: tutte le mattonelle sono incrostate e sia le condotte dell'acqua potabile che quelle fognarie, sono così vecchie e obsolete che perdono e si otturano in continuazione. George cerca di spiegare le difficoltà che incontra nel suo lavoro, nel mantenere decorosamente pulite le docce e i lavabi, ma nessun responsabile della fonderia lo ascolta, sia perché costa troppo demolire e rifare i servizi igienici, sia perché le logiche del profitto impongono la risoluzione di altri problemi, come quello di ga-rantire la produzione giornaliera, tagliare le spese e far quadrare i conti.
George vorrebbe parlare degli Angeli con un algerino, Mohamed Kamel, quando con lui sta vicino alla sabbiatrice, una macchina che lucida i pezzi di ghisa utilizzando una turbina che indirizza contro di loro un potente getto di grani di sabbia. L'algerino, però, ha in testa un solo pensiero: è solo in Italia e nel suo paese natio la moglie rischia ogni giorno di trovarsi con la gola tagliata per mano degli integralisti. Lui non sa chi siano queste persone che uccidono in nome dell'islam e perché lo facciano. Kamel sa solo che lo fanno e che sua moglie è indifesa. L'istanza che ha presentato per ottenere il ricongiungimento familiare si è arenata perché Kamel ha il domicilio presso il dormitorio comunale. Dovrebbe affittare una casa e i soldi li ha pure, almeno per pagare i primi mesi di affitto. A Treviso, però, è difficile che qualcuno affitti un appartamento agli extracomunitari che spesso vengono accusati di trasformare le case in porcili e di versare il canone di affitto in ritardo, oppure di non pagare affatto.
Non manca poi il marocchino che pretende di non pagare il fitto di agosto perché lui quel mese è stato altrove e poco importa se il contratto stipulato col proprietario dell'appartamento contempla quattro anni di affitto. Mohamed Kamel pensa alla sua giovane moglie in Algeria e si rammarica che per colpa di altri lui non possa trovare un alloggio, e in tutto questo a cosa serve ascoltare George? E' per questo che spesso sgrida il piccolo ghanese e con modi bruschi gli comanda di prendere i pezzi di ghisa più pesanti. George ubbidisce e si consola pensando che anche Mohamed Kamel ha un angelo che gli vuole bene.
Dopo il lavoro George compra qualcosa da mangiare a un supermercato economico e se c'è ancora qualche ora di luce, è solito acquistare anche un grosso ananas e qualche bottiglia di birra, per poi andarsene tutto solo sulla Restera ad ammirare i cigni che con eleganza si muovono sulle placide acque del Sile. Spesso resta assorto, assente, a contemplare il fiume che scorre, e forse - mentre mangia una fetta di ananas o assapora un sorso di birra - pensa alla sua Africa, a sua madre che è rimasta nel Ghana oppure ad uno dei suoi fratelli maggiori che lavora come ingegnere informatico a Boston. Quando viveva nel Ghana, George insegnava in una scuola elementare ed era un maestro rispettato da tutti. Si era sposato e da sua moglie aveva avuto un figlio. Poi è successo qualcosa, qualcosa che George non vuole più ricordare. Con sua moglie si è lasciato ed è venuto in Italia tre anni fa. In Ghana però ci vuole ritornare anche per dimostrare a suo figlio che lui non è un fallito. George a Treviso vuole lavorare, vuole guadagnare e far crescere i suoi risparmi. Solo quando avrà parecchi soldi potrà ritornare nel suo paese natio e portare un regalo ai familiari e ai parenti, e recuperare ciò che gli importa di più: la stima di suo figlio.
Quando George arriva a bere metà bottiglia di birra, è solito iniziare a frugare nella sua variopinta camicia per tirare fuori un curioso involucro: una busta di plastica contenente il suo permesso di soggiorno, il libretto di risparmio postale e una fotografia che mostra un ragazzo sorridente in giacca e cravatta seduto spavaldamente sul cofano di una vecchia auto. Il ragazzo è suo fratello, è più giovane di lui ed è rimasto nel paese natio dove è diventato qualcuno. Se George dovesse ora ritornare in Ghana dovrebbe ricorrere al suo aiuto e ciò sarebbe un'umiliazione insopportabile, sarebbe deriso da tutti i suoi conoscenti, suo figlio si vergognerebbe di lui e nei villaggi vicini non si farebbe altro che parlare di un uomo che nella vita non è riuscito a far nulla di buono.
George tira un grosso respiro e con cura ripone la foto nell'involucro di plastica per prendere il libretto postale. Anche se conosce bene l'attuale importo dà comunque un'altra occhiata all'ultima cifra: è ancora troppo poco per ritornare in Africa e per un attimo cerca di pensare quanti anni ancora dovrà trascorrere in Italia. Rimette tutto a posto e mentre avvicina la bottiglia alla bocca per gustare l'ultimo sorso di birra, i suoi occhi stanchi per il duro lavoro svolto nel grigiore della fonderia cercano il bianco immacolato di un cigno. Prima di andare via, l'uomo del Ghana dà un ultimo sguardo alle acque del fiume nel tentativo di scorgere una trota o una ninfea: si è fatto buio e anche se George vede solo alghe e piccoli vortici, qualcun altro, dal profondo dell'acqua del fiume, contempla un piccolo uomo di colore, pieno di paure e di speranza, venuto dall'Africa e alto un metro e sessanta. Raccolti i resti dell'ananas e la bottiglia vuota nella borsa presa al supermercato, George si avvia mestamente verso via Appiani dove i suoi amici lo aspettano per mangiare riso e per ascoltare le sue storie sugli angeli.
(Dal volume di Carlo Silvano, “Cristiani e Musulmani, Costruire il dialogo partendo dai fatti di borgo Venezia di Treviso”. Edizioni Del Noce 2003, pp. 88).