Carlo Silvano


articoli vari

Il miracolo del Nordest

Vivendo a Treviso e imparando a conoscere i trevigiani mi sono trovato ad affrontare un dilemma che ancora oggi sono costretto a pormi, e riguarda il cosiddetto “miracolo del Nordest”.  A chiedermi lumi sono soprattutto certi meridionali desiderosi di comprendere le condizioni che hanno consentito al Veneto, che fino agli anni Settanta era un’area economicamente depressa tra le più svantaggiate della Penisola, ad arrivare in cima alla classifica delle regioni italiane più ricche. Le prime volte, un po’ per ignoranza, un po’ perché ero preso alla sprovvista, rispondevo che il vantaggio che il Veneto può avere rispetto ad una regione come la Campania, è che non conosce fenomeni delinquenziali ed organizzati come la camorra, oppure che in Veneto il lavoro è vissuto come valore primario dalle singole persone e ciò vuol dire molto in termini di produttività. Poi, man mano che imparavo a girare per il Veneto, a entrare nelle aziende, a conoscere padroni e dirigenti, iniziavo a raccogliere dati che mi lasciavano interdetto e mi facevano comprendere che non era più possibile dare risposte avventate o troppo generiche. Forse il cosiddetto “miracolo del Nordest” è davvero un qualcosa che resterà per sempre un interrogativo. 

Significativo, penso, è un episodio che mi è capitato quando per conto di una società interinale, la “Tempor srl”, dovevo collocare un operaio specializzato presso un’azienda che opera nel settore del legno. Si trattava di una Società per azioni con una quarantina di addetti che, esportando soprattutto nel Nord America, aveva a che fare con un mercato particolarmente esigente in termini di qualità e prezzo.

Quando feci la prima visita in azienda, giugno 2001, il responsabile della produzione nonché del personale, mi condusse subito in officina per presentarmi il suo problema: mi trovai di fronte ad un enorme macchinone, un concentrato di meccanica ed informatica acquistato nell’anno Duemila alla modica cifra di un miliardo e cento milioni di lire più iva. Erano trascorsi circa tredici mesi da quando il macchinone era stato collocato in quell’officina e non aveva ancora divorato neppure un etto di legno. “Purtroppo – mi aveva confidato il mio interlocutore, il quale possedeva anche una rilevante quota societaria dell’azienda – nessuno dei nostri operai è capace di fare andare questa macchina”.

Un po’ sorpreso gli chiesi come mai non aveva ancora provveduto a fare un corso di qualificazione per insegnare a due o più operai dell’azienda ad utilizzare il macchinone, magari con qualche ingegnere della ditta che lo aveva fabbricato. Il dirigente, a sua volta, si sorprese della mia domanda e si affrettò a precisare che un corso del genere poteva costare anche quindici milioni di lire. “Ci siamo informati – disse seccato il dirigente – e per chiamare un ingegnere bisogna pagargli anche l’albergo per un paio di settimane”. Tagliai corto e mi attivai per trovare l’uomo giusto per quella macchina che, con tanto di colorati bottoni e leve, sembrava uscita da un laboratorio della Nasa.

Fui fortunato e dopo una quindicina di giorni ritornai in azienda con un operaio specializzato che lavorava nella stessa zona industriale. Il candidato che avevo portato si avvicinò senza alcuna paura alla bestia info-meccanica e da una serie di osservazioni che fece dimostrò che poteva affrontarla e domarla. Nella ditta dove era assunto, del resto, aveva a che fare con una macchina molto simile con l’unica differenza che invece del legno lavorava lamiere di metallo. Il dirigente, da parte sua, si mostrò cordiale e tutto sembrava che andasse per il verso giusto fino a quando non si toccò il discorso della busta paga. Il mio candidato guadagnava circa un milione e seicentomila lire al mese e, a me sembrava logico, per passare in quest’altra azienda chiedeva almeno duecentomila lire mensili in più. Non ci fu verso. Nessuna mediazione fu possibile.

Dopo pochi minuti io e l’operaio eravamo fuori, oltre il cancello dell’azienda, in strada tra grigi capannoni industriali, al freddo, senza alcuna speranza e sotto ad un cielo zeppo di nuvole nere come l’inchiostro di china. Il macchinone, ovviamente, rimase in officina dove era sempre gelosamente custodito, sorvegliato a vista, temuto e ammirato e chi sa’ per quanto tempo fu lasciato lì, abbandonato e destinato ad arruginirsi. Al dirigente di quell’azienda non ebbi nemmeno modo di ricordargli, anche se non sarebbe servito a nulla, un proverbio che dice: “A chi l'attempa a perdi”[1]. il mio candidato invece continuò a guadagnare un milione e seicentomila lire al mese, ed io sono rimasto con i miei dubbi sul cosiddetto “miracolo del Nordest”. [Carlo Silvano, novembre 2005]







[1]Chi continua a temporeggiare prima di decidere, finisce col perdere tutto quello che potrebbe ottenere” (proverbio còrso).

Categoria: Racconti
giovedì, 23 mar 2006 Ore. 13.16
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