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PRE.MIO Biblioteche di Roma. Il premio dei lettori
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Recensione di Baliani "Nel regno di Acilia"


C'era una volta la fiaba
Luciana Cinfanelli, Circolo Rispoli

Il regno di Acilia: una sorta di fiaba visionaria, cruenta e magica, tenera e cinica, di una infanzia oscura e negata.

Siamo negli anni Cinquanta: quattro ragazzi in una sorta di terra di nessuno, tra Acilia e Dragona, a pochi km da Roma, tra marane e baracche, case abusive e paludi. L’io narrante – il Rana – e il Sorcio, eroe protagonista-motore della storia, e Polmone e Achille (eredi solo in apparenza dei ragazzi di vita pasoliniani, per quel loro essere definiti per tratti fisici marcati, con un linguaggio segnatamente realistico-veristico), in una sorta di percorso, tra iniziatico e visionario, attraverso l’esperienza del dolore e della perdita, la presa di coscienza della responsabilità personale e della necessità della scelta, in un crescendo epico fino alla mattanza finale e (forse)  la vittoria sul male: “Sorcio coltello che spanza, affonda, riaffiora, ripiomba” a vendicare la madre e la sorella, la Francesina, e Catrame e Camicia (pag.387).

Romanzo di formazione che si disvela come in una rappresentazione teatrale (non è un caso che l’Autore - che ha studiato da vicino e molto amato il mondo dei ragazzi - venga da una lunga esperienza di ricercatore, autore, e regista in ambito teatrale) che ha per luogo il mitico e straniato regno di Acilia, luogo-non luogo in cui, proprio come in teatro, la baracca di Corvina si trasforma in castello, con la sua corte fedele di esseri fatati, e le luride pezze che coprono i pantaloni sdruciti del Sorcio e dei suoi compagni si mutano in stoffe rare e preziose.

E, proprio come in teatro, tutto sembra potersi realizzare e poi, al calare del sipario, tutto torna … “come sempre. Un giorno di paglia, uno dei tanti come tutti quelli che ho vissuto in questi quarant’anni. Mi sforzo di ricordarne qualcuno diverso, qualcuno di quelli erbosi. Forse quando mi sono innamorato di Giovanna, sì da quelle parti ci dev’essere stato qualche giorno d’erba, ... ma è passato tanto tempo, sì qualche giorno azzurro elettrico deve essere durato più del solito, non tutta paglia, non tutta” (pag. 389-390), come  dice l’io narrante a se stesso nelle ultime pagine del romanzo.

E, proprio come nelle fiabe, Catrame, Corvina e Camicia aiuteranno i protagonisti a percorrere tutta intera la loro storia, senza tentennamenti, fino in fondo al loro destino di dolore e di morte, di vendetta e resurrezione, di maturazione e di accettazione.

Restano, tuttavia, molte simbologie difficili da decifrare, alcuni punti oscuri, ma il fascino e il potere di coinvolgimento della narrazione è molto alto e questa sorta di fiaba-Entwicklungsroman  ci prende per mano facendoci dimenticare che tempi e luoghi – proprio come nelle favole – sono ormai lontani e quasi indecifrabili, persi nello spazio di una realtà oggi irriconoscibile e totalmente stravolta. O forse anche la scelta di questa collocazione in un tempo così remoto ha in sé un valore simbolico-metaforico intorno al quale potrebbe essere interessante interrogarsi.
giovedì, 01 dic 2005 Ore. 16.43
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