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16. Giovanni Boccaccio - Biografia e approfondimento critico su tutte le opere

Elisabetta Menetti - GIOVANNI BOCCACCIO

 

1. Un instancabile sperimentatore

2. La vicenda biografica

3. La cultura letteraria

4. Lo scrittore giovane

5. Il Decameron

6. Gli studi eruditi e il Corbaccio

Bibliografia

Note

 

In appendice si propone “La biblioteca di Boccaccio”, un testo che contiene interessanti informazioni sulla composizione e la sorte postuma dei libri appartenuti a Boccaccio. Si tratta di un inserto, presumibilmente a cura redazionale, presente in LIE, Letteratura italiana Einaudi, volume 2, edizione La Biblioteca di Repubblica - L’Espresso, 2007.

Digitalizzazione a cura mia.

Ho fatto due piccole aggiunte, dove vengono menzionati i codici di Marziale e Terenzio.

 

1. Un instancabile sperimentatore

L'immaginario narrativo che Giovanni Boccaccio dispiega nel corso della sua ricca produzione letteraria configura un mondo di invenzione vivo e originale, in cui l'interesse a sperimentare nuovi generi e forme si unisce ad una acuta capacità di elaborare e rimodellare la tradizione antica e quella moderna. La ricerca di nuovi orizzonti, in prosa e in versi, nasce da un vigile e personalissimo sincretismo culturale, mentre l'«incessante sperimentalismo» 1 si afferma nell'insieme dei generi letterari, assunti quali campi di prova del proprio genio narrativo: il Filocolo (1336-1338) è il primo romanzo in prosa della nostra letteratura, il Filostrato (la cui data di composizione oscilla tra il 1335 e il 1339) il primo poema in ottava rima, il Teseida (1339-41) il primo poema epico, come la Commedia delle ninfe fiorentine (1341-42) inizia la tradizione delle favole pastorali, l'Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344) è il primo romanzo psicologico, il Decameron (1349-51) il primo libro di novelle e, infine, il Corbaccio (tra il 1355-1366-'67) rappresenta il primo modello di satira antifemminile. 2

Boccaccio, di più, vi accompagna, nel corso del tempo, una riflessione critica conforme al proprio disegno letterario, chiarendo di testo in testo destinazione, scopi e modalità della sua vitalissima affabulazione. D'altra parte egli non è solo uno scrittore prolifico e versatile, ma anche un lettore e un “editore” instancabile, che non esita a farsi umile e attento copista nella trascrizione dei classici più amati (come, per esempio, Terenzio, Giovenale e Apuleio). E gli autografi, che testimoniano questa laboriosa attività editoriale, sono ancora oggi conservati in molte biblioteche europee. 3

Ma la parabola della poetica boccacciana si spiega solo se la si colloca nel luogo e nel tempo in cui essa si sviluppa: nello spazio geografico e culturale compreso tra Napoli e Firenze - le due città in cui ha vissuto - e nel tempo dell'ascesa del nuovo ceto mercantile, che avrebbe prodotto complesse trasformazioni non solo nella scena sociale e politica europea, ma anche nella formulazione di un nuovo universo poetico, sospeso tra il mito cavalleresco della memoria cortese e la realtà di una nuova e pulsante società borghese.

A due figure, in particolare, egli si lega profondamente: a Dante Alighieri ed a Francesco Petrarca. Boccaccio aveva otto anni nel 1321 quando moriva Dante, del quale sentiva parlare spesso in famiglia, grazie ai legami tra la sua matrigna e la donna amata dal poeta, Beatrice. E solo una decina d'anni lo separavano dal più anziano Petrarca, che, a partire dall'incontro avvenuto nel 1350, sarebbe diventato un caro amico e una guida spirituale, un maestro unico della parola e della meditazione interiore.

2. La vicenda biografica

Boccaccio propone ai suoi lettori una storia romanzata della propria vita, per cui sarebbe nato a Parigi, come figlio illegittimo di un mercante, Boccaccio di Chelino, detto Boccaccino, e di una misteriosa figlia del re di Francia. Poi, passato sotto la tutela del padre, avrebbe faticato a intraprendere la strada della vocazione letteraria e creativa. In un passo dell'opera latina Genealogiae deorum gentilium (XV X 7-8), scritta in età matura, Boccaccio mostra di ripercorrere le fasi iniziali della propria giovinezza nella luce di un'autobiografia stilizzata a posteriori. Scrive di sé:

“(…) a qualsiasi azione la natura abbia generato altri, io sono stato da essa disposto (e ne è testimone l'esperienza) fin dal grembo della madre alle meditazioni poetiche e, a mio giudizio, sono nato a questo. Ben ricordo infatti che mio padre fece ogni tentativo, fin dalla mia fanciullezza, perché diventassi mercante; e quando ancora non ero per entrare nell'adolescenza, dopo avermi istruito nell'aritmetica, mi affidò come discepolo ad un grande mercante, presso il quale per sei anni null'altro feci che consumare invano tempo non recuperabile. Di qui, poiché da alcuni indizi parve chiaro che ero più adatto allo studio delle lettere, mio padre ordinò che io andassi a scuola di diritto canonico per diventare ricco; e sotto un maestro molto illustre invano faticai ancora per altrettanto tempo. (…)”.

Il padre, dunque, lo vuole mercante, ma Boccaccio, spinto da un' insopprimibile passione letteraria riesce a emanciparsi dalla volontà paterna e realizza il suo sogno: “(…) Quando, già quasi maturo d'età, mi resi indipendente, mentre nessuno mi incitava o mi istruiva, anzi con l'opposizione del padre, che condannava tal genere di studi, l'ingegno spontaneamente assimilò quel poco di poesia che avevo conosciuto; e con grande avidità la proseguii e con speciale diletto vidi e lessi i libri dei poeti, e, come potei, tentai di comprenderli. E, mirabile a dirsi, mentre ancora non sapevo con quanti e quali piedi procedesse il verso, fui chiamato poeta da quasi tutti quelli che mi conoscevano”. Racconta di aver studiato da solo e contro il volere del padre “i libri dei poeti”, che divora e assimila in modo personale (“come potei”) e senza l'ausilio di “maestri”. Ma nonostante questa formazione da autodidatta, di cui dichiara con candore la superficialità (“mentre ancora non sapevo…”), egli diventa poeta o viene riconosciuto tale da tutti coloro che lo circondano.

Le ricerche condotte in anni recenti hanno risolto in parte il mistero della nascita, mentre non ne è ancora stato identificato con esattezza il luogo. L'intera ricostruzione biografica è incerta e condizionata al racconto che lo scrittore costruisce come una sorta di mito personale.

Giovanni Boccaccio nasce nell'estate del 1313 in terra toscana: a Firenze o probabilmente nella vicina Certaldo (paese d'origine della famiglia paterna), come si può desumere dalla firma per esteso (“Giovanni di Boccaccio da Certaldo”), in cui lo scrittore assume dichiaratamente il nome del padre e della località natale per rendere evidenti le proprie origini. Il nome della madre è ignoto.

La prima fase della sua educazione si svolge nella casa del padre a Firenze, prima nel quartiere di San Pier Maggiore e poi in quello commerciale di Santa Felicita oltre Arno. Siamo intorno al 1321, anno in cui muore Dante Alighieri. Sin dall'infanzia il piccolo Boccaccio viene a contatto con il nome del grande poeta, anche per ragioni familiari. All'opera dantesca è introdotto dal maestro di questi primi anni, Giovanni Mazzuoli da Strada, rimanendo affascinato dalla visione poetica della Commedia, che sarà per sempre al centro delle sue riflessioni poetiche e letterarie.

Nel 1327 Boccaccio si trasferisce a Napoli per restarvi fino al 1340-41. Il padre era stato chiamato alla corte di re Roberto d'Angiò, poiché era legato alle attività bancarie dei Bardi, che finanziavano a quel tempo la corte angioina, e così tra il 1327 e il 1328 manda il figlio a fare pratica mercantesca e bancaria nella succursale dei Bardi come commesso al banco. E' un'esperienza importante: “proprio quelle sue giovanili esperienze - sottolinea Vittore Branca - nel banco napoletano dei Bardi, nel quartiere animato di Portanova, nei contatti quotidiani con mercanti, gente di mare, avventurieri, popolani e nobili, sollecitarono nel Boccaccio un penetrante e umano spirito di osservazione, da grande narratore, e una conoscenza e un gusto dei costumi e dei caratteri dei più diversi strati sociali e dei più diversi paesi mediterranei, che allora avevano nella Napoli angioina uno dei loro principali centri politici e uno dei loro grandi empori economici”. 4

A questa esperienza di vita si aggiunge un primo e determinante apprendistato letterario. Alla corte angioina Boccaccio conosce Cino da Pistoia, professore di diritto civile e amico di Dante e di Petrarca, che lo indirizza allo studio dei grandi poeti volgari e in particolare di Dante. In questo ambiente aristocratico, inoltre, vi è una vivace circolazione dei testi in lingua d'oc e in lingua d'oïl, che riscuotono un grande successo, come letteratura di intrattenimento: le liriche provenzali, i romanzi cavallereschi di Chretièn de Troyes, i Lais di Maria di Francia e i fabliaux francesi diventano le letture più amate e cercate dallo scrittore. 5 Alla corte angioina, inoltre, circolavano ampiamente i testi della complessa tradizione della letteratura arturiana e della materia di Bretagna, con le meravigliose avventure di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda o con le amorose storie di Tristano. 6 Infine, la ricca biblioteca regia gli permette di accedere facilmente ai rari e preziosi manoscritti degli autori classici più cari alla cultura medievale, come Ovidio, Apuleio, Virgilio, Stazio, Livio, Valerio Massimo, Lucano e Macrobio, oltre agli autori canonici mediolatini.

Così nella formazione di Boccaccio si riconoscono due fonti primarie di ispirazione. Dall'ambiente mercantile egli trae una sorta di geografia del mondo e degli uomini piuttosto ampia, che trascende i confini tardo-gotici della corte angioina: gli si aprono vasti orizzonti culturali, facendo del Mediterraneo il centro di irradiazione di un nuovo modo di narrare e di una nuova visione della realtà quotidiana, che si colora di eventi meravigliosi. E intanto nel chiuso della biblioteca regia, lo scrittore si arricchisce con la lettura dei testi latini e mediolatini, secondo un percorso di studi tipicamente medievale, a cominciare dai brevi racconti moraleggianti (gli exempla) della più antica tradizione patristica e della recente produzione omiletica propria dei predicatori a lui contemporanei, nei quali il futuro scrittore del Decameron ritrova fecondi spunti narrativi. 7

Nel fervore di queste memorie poetiche Boccaccio comincia a scrivere le sue prime opere, con l'entusiasmo di una scelta definitiva che è insieme la scoperta di una vocazione. Di questi anni sono la cosiddetta Elegia di Costanza (1332), la Caccia di Diana (1334), le prime rime, il Filocolo (1336-1338), il Filostrato (1335-1339), il Teseida (1339-1341).

Tra il 1340 e il 1341, e precisamente durante l'inverno, cade la seconda fondamentale svolta, quando Boccaccio è costretto ad abbandonare Napoli e gli sfarzi della corte angioina, dopo che il padre già dal 1338 aveva lasciato la compagnia dei Bardi, a seguito di un repentino cambiamento dei rapporti finanziari e politici tra Firenze e Napoli. Ancora privo di autonomia economica si sistema a casa del padre e lascia varie volte Firenze per recarsi a Ravenna (nel '46) alla corte di Ostasio da Polenta e a Forlì (tra il '47 e il '48) presso quella di Francesco Ordelaffi.

Il ritorno in terra toscana conduce lo scrittore a rinnovare il proprio impegno letterario e a misurarsi con altri generi: dopo aver scritto un breve resoconto sulla spedizione del capitano Nicoloso da Recco alle isole Canarie (De Canaria et insulis reliquis ultra Ispaniam in Occeano noviter repertis, 1342), tenta di seguire il magistero dantesco con opere di impianto allegorico come la Commedia delle ninfe fiorentine (1341-1342) e l'Amorosa visione (1342-1343). E tra il 1343 e il 1344 con l'Elegia di Madonna Fiammetta mette alla prova un nuovo genere letterario: il romanzo psicologico, mentre tra il 1344 e il 1346 compone il Ninfale fiesolano, un poemetto mitologico-eziologico.

Il 1348 è un anno cruciale: Boccaccio è testimone di un evento drammatico che lo segna profondamente. Firenze, come gran parte delle città della penisola, viene colpita da una devastante epidemia di peste. Lo scrittore è tra i sopravissuti, ma la tragedia di un'umanità lacerata da un'epidemia inesorabile, resta come una ferita aperta e dolorosa, iscritta nell'impianto ideologico e narrativo del suo capolavoro, il Decameron (1349-1351). Intorno al 1349 egli deve occuparsi della propria famiglia, colpita nel giro di un anno da due dolorosi lutti: nel 1348 muore di peste la matrigna e nel 1349 anche il padre Boccaccino. Inoltre, dopo la nascita della terza figlia (Violante) Boccaccio, che è ormai diventato un personaggio autorevole a Firenze, è impegnato in numerose missioni diplomatiche: nel 1350 viene inviato come ambasciatore presso i signori di Romagna e in quell'occasione promuove l'iniziativa di consegnare, quale parziale e simbolico risarcimento per l'esilio del padre, dieci fiorini d'oro alla figlia di Dante, suor Beatrice. Nello stesso anno con altri letterati fiorentini incontra Francesco Petrarca: è l'inizio di una lunga e intima amicizia, umana e intellettuale, che illumina la vita di entrambi. Nel 1351, sempre in qualità di ambasciatore, si reca a Padova da Petrarca per offrirgli, ma senza successo, una cattedra presso lo Studio fiorentino.

Gli onori ora non mancano a Boccaccio con missioni diplomatiche sempre più impegnative. Ma l'accresciuto prestigio, però, non attenua le ristrettezze economiche. Così lo scrittore cerca di tornare a Napoli, per trovare una definitiva e sicura sistemazione alla Corte angioina, ma il tentativo di ritornare nei luoghi della giovinezza si dimostra un fallimento: Boccaccio si sente umiliato e disprezzato da coloro che considerava amici e la delusione per il mancato riconoscimento da parte della Corte lo convince a rinchiudersi nella sua casa di Certaldo. Siamo già intorno al 1360 e in questi anni, dopo l'esperienza creativa del Decameron e dopo l'incontro con Francesco Petrarca molte cose sono cambiate. Nel 1360, forse per trovare una soluzione ai suoi dissesti finanziari, Boccaccio prende gli ordini minori e diventa chierico, facendo una scelta di vita che lo porterà talora a giudicare con eccessivo rigore la leggerezza e il disimpegno delle sue opere in volgare (con l'eccezione del Decameron, che continuerà a riscrivere sino alla fine dei suoi giorni).

Gli interessi culturali si allargano e si approfondiscono: Boccaccio si dedica alla ricerca letteraria di testi latini e trascrive importanti codici di opere classiche. Dal 1360 la sua casa diventa una sorta di centro di studi preumanistici, un luogo di incontro dei maggiori letterati del tempo. Boccaccio diventa così, con Petrarca, il maestro di un nuovo modo di leggere e di intendere gli antichi, tra cui include anche la letteratura greca, sostanzialmente sconosciuta al mondo medievale, facendo tradurre in latino le due opere capitali: l'Iliade e, solo in parte, l'Odissea di Omero. E' un'intensa attività umanistica di cui danno prova anche due Zibaldoni manoscritti, di vario argomento ed erudizione.

In questi anni, dunque, Boccaccio attende prevalentemente a opere in latino. E a partire probabilmente già dal 1349 fino al 1367 lavora alla stesura di un testo poetico: il Buccolicum carmen, una raccolta di sedici egloghe pastorali ad imitazione del modello petrarchesco (F. Petrarca Bucolicum carmen 1346 ca.). Tra il 1355-1360 compone un repertorio di geografia "letteraria" (ordinato in successione alfabetica), il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris liber. Dal 1355 si dedica alla stesura (che concluderà nel 1373) del De casibus virorum illustrium, una rassegna di storie dolenti di personaggi illustri cui fa seguito tra il 1361 e il 1362 il De mulieribus claris. Infine nell'arco di questi anni (tra il 1350 e il 1372) porta a termine il suo più importante trattato latino: le Genealogiae deorum gentilium. Infine, l'ultima opera narrativa in volgare è un breve e aspro pamphlet contro le donne, in particolare contro le vedove: il Corbaccio (1355-1365).

Accanto all'impegno profuso nello studio dei classici, Boccaccio continua a coltivare la sua passione per Dante: scrive il Trattatello in laude di Dante (a partire dal 1351), una biografia (la più antica) del poeta sotto forma romanzesca, e le Esposizioni sopra la Commedia, che contengono le lezioni pubbliche tenute da Boccaccio nel 1373 sui primi diciotto canti dell'Inferno nella chiesa di Santo Stefano di Badia a Firenze. L'interesse vivo per le biografie si esercita anche nella riscrittura, su richiesta di Petrarca, di un'agiografia dedicata al santo Pier Damiani e nella raccolta di notizie biografiche su Livio.

Questi sono anche gli anni più faticosi e più tristi per lo scrittore. Le ristrettezze economiche lo inducono a cercare a varie riprese (nel 1355, nel 1362 e nel 1370-71) una nuova sistemazione alla corte angioina di Napoli, ma raccoglie solo illusioni e delusioni. In una lettera all'amico Mainardo Cavalcanti del 28 agosto 1373 descrive con lucida crudezza la propria vecchiaia: “mi è faticoso guardare il cielo, pesante il corpo, vacillante il passo, le mani tremanti, stigio pallore, nessun desiderio di cibo…i miei pensieri tutti piegano al sepolcro e alla morte”. Egli muore pochi anni dopo, tormentato dalla malattia, il 21 dicembre 1375, a un anno dalla scomparsa del suo caro amico Francesco Petrarca.

3. La cultura letteraria

La vasta cultura letteraria e la continua evoluzione degli interessi dello scrittore si arricchiscono sempre di nuove suggestioni.

In un primo momento, tra il 1320 e il 1350, egli segue il tradizionale apprendistato medievale, tentando di riversare nelle sue prime opere le suggestioni della tradizione letteraria cortese, senza dimenticare, tuttavia, i nuovi valori della classe emergente, la cosiddetta “borghesia” mercantile. Di qui il confronto con i testi dell'enciclopedismo medievale e con i testi mediolatini, con la letteratura sapienziale dei Padri della Chiesa e con gli exempla dei predicatori cristiani, per trarne spunti, temi e intrecci che, riformulati con forza originale, diverranno una delle fonti del Decameron; ma insieme c'è il dialogo con i testi classici latini (in particolare nelle opere di Ovidio, Virgilio, Lucano, Stazio e Apuleio) e con la tradizione cortese e cavalleresca d'Oltralpe.

Va ricordato che intorno alla metà del Trecento, i romanzi cavallereschi e i poemi epici incontrano più che mai i gusti di un vasto pubblico, come dimostra la loro ampia circolazione manoscritta. Essi costituiscono una letteratura di svago e di intrattenimento, ma, nello stesso tempo, propongono un modello di vita, quello cortese, che non parla soltanto alla nobiltà, ma anche alla nuova borghesia mercantile e alle élites cittadine, pronte a riprenderne i rituali negli incontri amorosi tra dame e cavalieri, nel culto della musica, nella caccia con il falcone, proprio nello stile che sarà impersonato dalla nuova generazione di intellettuali, come la “lieta brigata” del Decameron dimostrerà. 8 E insieme si afferma un sistema di valori, tra nobiltà e cortesia - che aveva già avuto in Dante un celebratore - sia pure in opposizione all'etica del ceto mercantile

Boccaccio, figlio di mercanti e giovane poeta della corte angioina, sensibile alle più diverse suggestioni culturali, antiche e moderne, letterarie e storico-sociali intuisce le contraddizioni della nuova società mercantile, divisa tra la spregiudicata ricerca del guadagno e l'intraprendente scaltrezza dell'agire e muove l'adesione agli ideali cortesi di una vita più bella, alla luce della magnanimità e della generosità. La lettura e lo studio dei testi danteschi (dal De vulgari eloquentia alla Vita Nuova alla Divina Commedia), intanto, lo invitano ad arricchire il proprio vocabolario con temi, stilemi, moduli retorici e stilistici (specie il comico), che confluiranno nel Decameron e nella sua geniale sperimentazione espressiva.

Ma anche Francesco Petrarca diviene presto un polo di riferimento: Boccaccio comincia a leggere e ad apprezzare le sue opere già dal periodo napoletano, tanto che, probabilmente tra il 1341-42 e il 1347-48, scrive il De vita et moribus Domini Francisci Petracchi de Florentia. Ma è soprattutto in seguito al primo incontro (1350) che tra i due intellettuali nasce un intenso rapporto culturale, anche se Boccaccio nella sua devozione per “il poeta laureato” si considera solo un umile “discepolo”.

La ricerca e lo studio dei testi dei classici, la trascrizione dei codici, l'interesse verso una letteratura enciclopedica e sapienziale (naturalmente in latino) sembrano così imporsi dopo il 1350 anche per l'esempio petrarchesco. Tuttavia, nonostante il nuovo corso erudito, Boccaccio resta fedele al culto dantesco e continua a rivedere il proprio capolavoro, con un'attenzione vigile e appassionata, anche contro le riserve petrarchesche su Dante e il volgare. Peraltro all'invio da parte di Boccaccio di una copia del Decameron, Petrarca, infatti, risponde con franchezza di aver letto rapidamente le novelle e di considerare con indulgenza la licenziosità della tematica amorosa solo perché frutto di un'opera della giovinezza. Nello stesso tempo afferma di aver apprezzato l'ultima novella (Decameron X, 10), quella nobilissima di Griselda, di cui propone una sua personale riscrittura in latino. La novella di Griselda, riscritta da Petrarca in latino (con un nuovo titolo: De insigni oboedientia et fide uxoria), avrà subito una circolazione straordinaria in tutta Europa, tanto che qualche anno più tardi, in Inghilterra, lo scrittore Geoffrey Chaucer riscriverà la storia di Griselda nei suoi Canterbury Tales (1387 ca.), con l'avvertimento di averla sentita raccontare dallo stesso Petrarca, senza più ricordare il suo autore originario. Proprio la versione in latino di una novella in volgare ad opera di Petrarca avrà un ruolo fondamentale nella evoluzione della teoria umanistica del “genere” novella.

4. Lo scrittore giovane

L'esordio letterario di Boccaccio è in latino: con l'Elegia di Costanza (scritta nel 1332 ca.) lo scrittore si misura con Ovidio, con Seneca e con la letteratura medievale (soprattutto con Boezio) in esametri di gusto erudito, dovizioso ed eloquente. L' Elegia è la prima testimonianza della complessità della sua cultura letteraria, composta da un originale e personale intreccio della tradizione latina con quella mediolatina. Agli stessi anni appartengono i componimenti delle Rime, che costituiscono ancora oggi un problema filologico aperto per la mancanza di una raccolta allestita dall'autore. Le liriche accertate constano di 126 componimenti, in cui Boccaccio si allinea in parte alla tradizione stilnovistica e dantesca e in parte al nuovo modello di Petrarca. 9

Di fatto la prima opera letteraria d'invenzione in volgare è la Caccia di Diana (1334): un poemetto in terzine (scritto secondo lo schema metrico della Commedia), diviso in diciotto brevi canti, omaggio galante e mondano all'ambiente angioino nel canone stilnovistico: vi sono celebrate le donne della corte, distribuite in quattro schiere e ritratte mentre si dedicano alla caccia. 10 L'intenzione è quella dell'encomio ma già si intravedono argomenti destinati a maturare nelle opere successive, come la celebrazione sia dell'universo femminile sia dell'amore, che ingentilisce e trasforma l'animo umano. E non è un caso che il poemetto si concluda nel segno di Amore, quando, alla fine della caccia, le donne si rifiutano di seguire i precetti di Diana - che aveva loro imposto di sacrificare a Giove le loro prede - e decidono di seguire i consigli di Venere, per votarsi all'amore. Venere, allora, concede alle sue devote una metamorfosi: gli animali, tra i quali figura anche il Boccaccio - che aveva assistito alla caccia sotto le sembianze di un cervo - si trasformano in uomini (“di quelli ardori / usciva giovinotto gaio e bello / tutti correndo sopra 'l verde e' fiori”). Lo stesso scrittore viene convertito “in creatura umana e razionale”. Il mito è così immerso nella festa di corte, nel gioco delle forme e dei sentimenti; un recupero, libero e creativo, della ricca tradizione letteraria, latina e romanza.

Tuttavia, più dell'espressione lirica conta la possibilità di immaginare e di rappresentare nuovi mondi narrativi a specchio dell'esperienza napoletana.

Le tre significative opere narrative di questo periodo (il Filocolo, il Filostrato, il Teseida) nascono nel segno dell'auctoritas classica e della contaminazione con le trame romanzesche della più moderna cultura francese - tra Ovidio, Apuleio e la tradizione stilnovistica (Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia) - ricongiunta alla nuova misura petrarchesca. Così tra il 1335 e il 1339 Boccaccio elabora due opere molto diverse tra loro, il Filocolo e il Filostrato, per affrontare il tema amoroso da punti di vista opposti.

Il Filocolo, romanzo in prosa, racconta, secondo la teoria della fin'amor, la fatica di Florio (alias Filocolo, cioè “fatica d'amore”) nel conquistare la felicità amorosa con Biancifiore e nell'affermarsi positivamente come uomo. Nel Filostrato, romanzo in versi impostato invece sulla teoria del fol'amor, il protagonista Tròiolo (alias Filostrato, cioè “vinto e abbattuto da amore”) esce sconfitto dalla sua quête amorosa e muore d'amore per Criseida. 11 E' una opposizione tematica che, secondo Michelangelo Picone, resta poi “registrata nell'opera novellistica della prima maturità, fra la quarta giornata e le restanti giornate del Decameron”. 12

Con il Filocolo, in una prosa florida e sontuosa, Boccaccio rielabora una materia narrativa complessa e stratificata, di origine popolare e nota alla corte angioina grazie alla circolazione orale di un cantare in volgare, il Florio e Biancifiore, la cui prima testimonianza manoscritta, tuttavia, è del 1343. Di fatto, a tutt'oggi si conosce, prima del Filocolo, solo l'esistenza di un poemetto in francese, il Conte de Floire et Blancheflore. Lo stesso scrittore, inoltre, rivela di aver rielaborato una storia, già molto conosciuta, per accontentare le richieste di Fiammetta, il mito letterario o la donna amata dietro il cui nome d'invenzione alcuni studiosi hanno creduto di poter riconoscere la figlia naturale del re Roberto d'Angiò, Maria d'Aquino. E a partire dal Filocolo Fiammetta diventerà una protagonista dell'immaginario boccacciano: tornerà nell'Elegia di Madonna Fiammetta e nel Decameron.

Nel Filocolo il tema amoroso si intreccia con quello epico e avventuroso: le descrizioni di un Oriente meraviglioso, la presenza di apparati magici e l'insieme degli ostacoli, che l'eroe deve superare nel suo lungo viaggio attraverso il Mediterraneo, riflettono l'atmosfera favolosa e mirabile dei romanzi francesi. Ma Boccaccio introduce anche una digressione, preludio alla cornice decameroniana. Mentre Florio-Filocolo è alla ricerca dell'amata, si imbatte in una brigata di nobili, con i quali partecipa al gioco di intrattenimento tipico della società cortese: il gioco delle "questioni d'amore", diretto da una fanciulla di nome Fiammetta.

E spetta a quest'ultima di distinguere "tre maniere d'amore": l'amore onesto (che si realizza nel matrimonio), l'amore per diletto (che coincide con l' “amore cortese”) e l'amore per utilità. Se quest'ultimo (l'amore per utilità) viene biasimato dalla fanciulla, perché fondato su motivi di interesse economico, l'amore per diletto di ispirazione cortese si contrappone a quello “onesto”, virtuoso e cristiano con un'antitesi tra la dimensione erotica delle passioni terrene e la visione cristiana dell'unione amorosa. Naturalmente le riflessioni sui sentimenti, sull'amore, sulla fedeltà, disseminate nel corso del romanzo, discendono dalla tradizione della civiltà cortese e in particolare dal trattato di Andrea Cappellano. Ma sono anche l'occasione per sostanziare la formazione e l'ethos del protagonista, Florio, che di avventura in avventura prende consapevolezza di se stesso e si afferma come eroe saggio e vittorioso sul mondo. 13

Con il Filostrato, un poema in ottava rima ordinato in nove canti, Boccaccio riscrive un episodio della guerra di Troia, già narrato da Benoît de Sante-Maure (Roman de Troie) e da Guido delle Colonne (Historia destructionis Troiae), già utile al Filocolo. 14 Anche in questo caso Boccaccio ristruttura in modo originale i materiali preesistenti, dilatando la vicenda amorosa dei due protagonisti (Tròiolo e Criseida) e lasciando sullo sfondo la materia propriamente epica e gli eventi bellici.

A differenza del protagonista del Filocolo (Florio, come paradigma di eroe cristiano) Tròiolo, invece, incarna un aspetto della personalità del tutto opposto: è un personaggio passivo, malato d'amore e incapace di realizzarsi. Ma a distinguere il Filostrato dal Filocolo è anche il genere, non più prosa ma romanzo in ottava rima, una struttura metrica nuova, che verrà ripresa tra Quattro e Cinquecento da Pulci, Boiardo, Ariosto e Tasso. Quanto all'origine e alle ragioni di tale scelta da parte dello autore si sono avanzate fino ad ora due possibili spiegazioni. 15 La prima sostiene la provenienza folklorica (dall'ottava siciliana) o religiosa (da una strofa laudistica) dell'ottava, mentre la seconda ritiene che l'ottava rima sia un'invenzione boccacciana, nata sulla base di una strofa di una canzone oitanica, l'huitan de decasyllabes, che si trova citata anche in un romanzo conosciuto dal nostro giovane scrittore: il Roman du chatelain de Coucy et de la dame de Fayel, composto verso il 1280 da un autore, il cui acrostico è Jakemes. 16

E sempre in ottava rima è il Teseida, diviso in dodici libri (sul modello dell'Eneide di Virgilio), che racconta la contesa tra Arcita e Palemone, prigionieri tebani, per la conquista amorosa di Emilia. Alla fine del dodicesimo libro (Teseida, XII, 84) lo scrittore rivendica la sua innovazione, essendo il Teseida il primo poema epico in volgare, un genere letterario ancora assente nella fondazione della letteratura in volgare, come aveva avvertito lo stesso Dante nel De vulgari eloquentia (II, II, 9). Boccaccio conosce bene il trattato dantesco e con il Teseida intende colmare proprio questa lacuna, ritornando alla poesia delle armi e della guerra; ma ancora una volta il tema amoroso ha il sopravvento e l'epos rimane solo un antefatto narrativo, confinato ai primi due libri a modo di contrappunto.

Anche con la Commedia delle ninfe fiorentine Boccaccio si mette alla prova un altro modello metrico e letterario: il prosimetro. Nella struttura quest'opera richiama il quarto libro del Filocolo e prefigura il Decameron, in quanto ci dà una cornice di tipo pastorale per racchiudere una serie di novelle. La cornice narra la storia di un pastore di nome Ameto, che vive nei boschi in un'immaginaria e meravigliosa Etruria (tra l'Arno e il Mugnone), dove incontra una schiera di ninfe, seguaci di Venere. Ameto si innamora della ninfa Lia, la quale esige di affrontare il tema amoroso sotto forma di racconto. Così le altre ninfe dicono a turno i loro amori (ecco le novelle), mentre Ameto, ascoltando, vive una sorta di trasformazione interiore. L'amore “purga di negligenzia, di viltà, di durezza e d'avarizia li cuori de' suoi seguaci”, li rende “esperti, magnanimi e liberali e d'ogni piacevolezza dipinti”. Così Ameto sotto il reggimento di Venere e della grazia femminile esce purificato.

L'inedita ambientazione in un contesto mondano e borghese dell'incontro delle ninfe con il pastore e una maggiore attenzione al coinvolgimento erotico rende quest'opera particolarmente nuova. Perciò lo studioso Carlo Muscetta ha potuto parlare di “un gusto goticheggiante” che si esprime in un complesso di “sottigliezze intellettuali e di sensuali piaceri, ma nelle forme autunnali di una borghesia già avviata al declino”, che “prendevano il sopravvento, invertendo quel rapporto che in Dante (si pensi al canto di san Francesco) era stato invece di rigorosa subordinazione della carne allo spirito”. 17 Boccaccio, richiamandosi alla letteratura amorosa latina (Ovidio in testa), propone una concezione dell'amore più aperta alla componente terrena e sensuale. L'innamoramento è prima di tutto un'esperienza umana da vivere con intraprendenza e libertà avventurosa.

Nell'Amorosa visione, un poema in terzine, composto tra il 1342 e il 1343 il dialogo è addirittura con il suo maestro, Dante e con il genere didattico-allegorico della visione: protagonista è lo stesso Boccaccio, come Dante nella Commedia. Lo scrittore dopo aver attraversato una spiaggia deserta viene accompagnato da una donna ad un castello, che ha due porte: una a destra, molto piccola, l'altra a sinistra molto più grande, che promette “Ricchezza, dignità, ogni tesoro / gloria mondana”. L'io che racconta sceglie di entrare in quest'ultima, simbolo del male: si trova così a percorrere alcune sale affrescate, che rappresentano allegoricamente i beni terreni. Poi, giunto in un giardino incontra Fiammetta, cerca con audacia di possederla ma qui il sogno si interrompe. L'amore diventa gioco della seduzione, passione, desiderio carnale, volontà di possesso, fino all'alienazione e alla gelosia ossessiva, come accadrà soprattutto nell'Elegia di Madonna Fiammetta.

L'Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344) è una lunga lettera che la protagonista (Fiammetta) scrive a tutte le donne innamorate, raccontando in prima persona le vicende e il dolore per la sua infelice avventura d'amore, quando Panfilo, il suo amante, dopo qualche tempo, la abbandona per tornare a Firenze e per sposarsi. L'incomprensione tra Fiammetta e il marito, l'angoscia causata per l'improvviso abbandono dell'amante, il senso della perdita di un'effimera felicità e lo smarrimento di fronte a un sentimento fortissimo sono i nodi che la donna analizza in una sorta di diario della propria storia e della propria pena.

La concezione amorosa, che ispira l'Elegia, afferma l'assoluta e invincibile supremazia della passione e della sensualità sulla ragione, sulla morale e su ogni vincolo sociale. E Boccaccio affida alla dea Venere il compito di impartire una lezione sull'amore a Fiammetta, già innamorata ma ancora insicura sulla decisione che l'attende. L'amore, spiega la dea, come passione terrena è più forte di ogni convenzione sociale. La stessa Natura, che presiede alle cose del mondo, è sottoposta alle leggi d'Amore. La passione amorosa, dunque, non si ferma di fronte al matrimonio o ai vincoli, ma si esprime in una piena libertà erotica e sentimentale. Chi viene colpito da Amore, conclude Venere, non può sottrarsi: deve vivere l'esperienza amorosa come realtà umana, necessaria e irrinunciabile.

Si ha così un “naturalismo” del tutto nuovo. Uomini e donne sono creature di Dio condizionate dalle leggi terrene della natura. E l'amore domina su tutto: sulla natura stessa e sugli esseri viventi. Uomini e donne, dunque, sono prima di tutto mossi e diretti nelle loro azioni dall'amore, che si trasforma in passione, desiderio, erotismo. Intanto Venere, a conclusione della sua lezione, dichiara apertamente che esiste parità tra uomini e donne di fronte all'amore e al tradimento. Ecco perché gli uomini non devono sentirsi offesi se le donne li tradiscono, poiché esse sono sottoposte alla stessa stregua alle leggi d'Amore: “Dunque non si fa loro ingiuria, se per quella legge, che essi trattano altrui, sono trattati essi; a loro niuna prerogativa più che alle donne è conceduta” (I, 17, 24). La rivendicazione della uguaglianza tra uomini e donne di fronte all'adulterio non poteva essere più ferma.

Fiammetta, secondo questa legge, non può negare la sua attrazione per Panfilo, nemmeno di fronte al vincolo matrimoniale. E vive il proprio innamoramento come una sorta di “furore”, come spiega alle sue “vaghe giovani”: “(…) v'avete trovato Amore essere iddio, al quale più tosto giusto titolo sarebbe furore” (I, 15, 1). E quando la donna viene sconvolta dall'abbandono e dalla disperazione, dopo una felicità troppo breve, quell'insopprimibile desiderio, ora frustrato e negato, si trasforma in un viluppo di sentimenti negativi: ira, gelosia e brama di vendetta. In preda al delirio Fiammetta sente presenze inesistenti, spera in ritorni impossibili, vive in uno stato di smarrimento, quasi al di fuori di sé. La follia prevale sulla ragione: ed è la prima descrizione di un'ossessione d'amore, scrutata in tutte le sue componenti, fisiche e psicologiche.

Le sfumature dell'animo sono tutte nell'alternarsi di sentimenti opposti: dall'amore all'odio, dalla volontà di vendetta al desiderio sensuale e amoroso, dalla ricerca disperata di notizie alla depressione e all'abbandono di ogni speranza. Nemmeno il Sonno, invocato come refrigerio di un essere esacerbato, può essere di consolazione, perché gli incubi impediscono di trovare pace. In verità solo dalla scrittura le viene conforto: scrivere, per aiutare altre donne ferite da Amore, aiuta anche a mettere ordine nel susseguirsi di contrastanti e imperiosi sentimenti. Alla scrittura (e alla letteratura) resta un potere salvifico, quasi di catarsi.

Fiammetta si esprime al pari di una “eroina” di Ovidio (secondo il modello elegiaco delle Heroides) e, a un tempo, trascrive le proprie angosce amorose sulla falsariga dei valori cortesi e cavallereschi in un intreccio affascinante di motivi e di emozioni che fanno di lei un personaggio nuovo e vividamente scolpito. Essa d'altro canto è insieme un personaggio e una narratrice: una duplice condizione, che trasforma radicalmente il ruolo tradizionalmente riservato alle figure femminili dalla letteratura cortese. E'l'eroina di un dramma d'amore e, come narratrice, racconta la propria storia come un'esperienza esemplare, come un monito a tutte le “innamorate donne”: il suo esempio negativo può servire a riconoscere quanto possa essere pericoloso addentrarsi sul pericolo della cieca passione.

Nel suo ruolo di narratrice Fiammetta gestisce anche la dinamica del processo narrativo, regola e misura gli effetti della propria parola nel momento in cui evoca le immagini e le situazioni di una vicenda realmente vissuta. L'Elegia vuole infatti essere prima di tutto una storia “vera”, tale da coinvolgere nella propria trama emotiva ogni lettrice: “(…) davanti agli occhi vostri appariranno le misere lagrime, gl'impetuosi sospiri, le dolenti voci e i tempestosi pensieri, li quali, con istimolo continuo molestandomi, insieme il cibo, il sonno, i lieti tempi e l'amata bellezza hanno da me tolta via”. In realtà, a parte le dichiarazioni topiche di veridicità di chi racconta, l'Elegia resta più che mai un testo letterario d'invenzione, dietro al quale si nasconde il vero autore Boccaccio, ambiguamente calato in una maschera femminile con il suo vissuto maschile.

Vita e letteratura, dunque, si confrontano e si confondono, in un immaginario suggestivo, appassionato e vibrante, dove realtà biografica e finzione letteraria, formano un intreccio entro cui matura un nuovo modo di rappresentare l'universo femminile.

Nel disegnare il profilo di Fiammetta lo scrittore fa ricorso a tutta la tradizione precedente, antica e moderna. Donne nel ruolo di protagoniste erano già presenti, come si è detto, nell'opera di Ovidio, mentre nella tradizione romanza Boccaccio poteva contare solo su due modelli precedenti: la poesia amorosa di Maria di Francia, che si pone al centro della lirica amorosa, e il personaggio dantesco di Francesca (Divina Commedia, Inferno V), interprete diretta del proprio destino. Ma la Fiammetta dell'Elegia, non è più solo la musa ispiratrice del Filocolo o l'oggetto del desiderio dell'Amorosa Visione. E' una donna che rivendica un ruolo attivo, impersona l'“io narrante”, diventa soggetto che parla, si muove, elabora teorie amorose, costruendo un universo di affetti e di relazioni femminili che relegano sullo sfondo il mondo maschile.

Per esprimere tutto questo, lo scrittore definisce fin dall'inizio il genere e lo stile dell'opera. Nel Prologo Fiammetta dichiara di voler scrivere con “lagrimevole stilo” tutta la propria infelicità amorosa, riferendosi chiaramente alla scelta dello stile elegiaco che, secondo la formula di Dante (De vulgari eloquentia II, IV 5) è “lo stile degli infelici” (“stilum…miserorum”), chiamato a dar voce alle storie d'amore dolorose e compassionevoli. Non è, dunque, uno stile che volge al tragico, poiché non avviene nulla di catastrofico e irreparabile: Fiammetta, infatti, minaccia un suicidio, che resta solo un desiderio. D'altra parte il racconto elegiaco non rientra neppure nel genere della “commedia”, in quanto la vicenda non ha lieto fine. L'elegia, così, si risolve unicamente in una lunga e dolorosa analisi di uno stato di tristezza e di desolazione in una registrazione drammatica di emozioni e di angosce.

Attraverso lo stile elegiaco Boccaccio inaugura nella letteratura italiana un nuovo genere letterario (l'elegia amorosa), che non prevede una conclusione (felice o infelice), ma che si configura come un genere “aperto”, senza altro scopo che quello della denuncia, continua e ossessiva, di un'angoscia d'amore. Per questo peculiare statuto di testo “aperto” senza soluzioni, in cui viene rappresentato un mondo interiore bloccato nella compresenza di passato e presente, la critica moderna ha creduto di riconoscere nell'Elegia il primo romanzo psicologico della nostra letteratura.

Non è ancora il Decameron, ma la mano dello scrittore è già pronta. Si tratta solo di raccontare, di riscoprire l'eterna commedia terrena delle donne e degli uomini.

Nel Ninfale fiesolano (1344-46) infine, poema in ottave sugli amori del pastore Africo per la ninfa Mensola, il motivo eziologico della narrazione, connesso alle leggendarie origini fiesolane di Firenze, costituisce lo sfondo mitologico-favoloso di una storia di genuina e sensuale passione, trattata con estrema leggerezza di tono e immediatezza rappresentativa (fu apprezzato in età laurenziana), attraverso l’impiego di un lessico piano, semplificato, usuale e soprattutto di una sintassi libera, impressionistica, vivacemente popolaresca (A. Balduino). Il poema si dispone su una lunga e ininterrotta sequenza di 473 ottave; l’opera risulta fortemente indebitata, per un verso, con i facili modi della tradizione canterina, e, per l’altro, con precisi modelli classici (soprattutto l’Ovidio delle Metamorfosi e delle Eroidi) e volgari (la Cronica di Giovanni Villani). Il Ninfale godette di larga fortuna, testimoniata dalle varie decine di manoscritti superstiti e dalla precocità dell’editio princeps (1477). Per la rappresentazione dell’amore come forza spontanea e naturale, libera e schietta, esente da qualsiasi senso di colpa, il Ninfale, insieme all’Elegia di madonna Fiammetta, è considerato il testo d’inizio dell’umanesimo ideologico di Boccaccio (Marti), in cui la mitologia cede il posto a una vicenda decisamente umana. La lingua ricorre ad una sintassi in apparenza semplice e lineare, ma in realtà irregolare, ricca di anacoluti e complessa, proprio per la sua vicinanza ai modi del parlato e del dialetto, modi che fanno presagire alcuni tratti del capolavoro boccacciano.

5. Il Decameron

5.1 Il macrotesto

Da un primo esame dell'organizzazione macrotestuale del Decameron emerge chiaramente la lucida consapevolezza critica che governa il primo libro di novelle della nostra letteratura. 18 Nel redigere l'ultimo manoscritto autografo (Hamilton 90) Boccaccio ha tracciato i confini della sua impresa narrativa e contrassegnato le diverse parti di cui essa è ordinata e composta. In particolare lo scrittore ha voluto rendere evidenti, e significativi, i margini editoriali del testo (con una frase di incipit e di explicit), ha mantenuto uno spazio di riflessione critica autoriale (nel Proemio, nell'Introduzione alla quarta giornata e nella Conclusione), ha diviso le dieci giornate con l'inserzione di un breve sommario iniziale (che ricorda il numero della giornata e il tema) ed ha anteposto brevi riassunti alle singole novelle (rubriche). Ha racchiuso, infine, le cento novelle entro un racconto più ampio: la cosiddetta cornice narrativa o novella portante, che inizia con l'Introduzione alla prima giornata.

Questa meditata veste editoriale contiene, trasformati e riconfigurati, modelli già canonici: i sommari e le rubriche sono un riflesso della struttura compositiva delle enciclopedie medievali e, in generale, dei testi patristici, mentre l'inserimento della cornice, che distingue il Decameron dalle altre raccolte mediolatine e romanze di racconti brevi, deriva dalla ripresa dei grandi testi di racconti orientali (le Mille e una notte, il Panchatantra, il Libro dei sette savi), il cui elemento strutturale viene dalla presenza di un racconto principale, che regge e raccoglie le singole unità narrative. 19

Collocata dopo il Proemio, l'Introduzione racconta l'epidemia di peste nera, che ha colpito Firenze nel 1348 e l'incontro tra i dieci giovani (tre uomini e sette donne) nella Chiesa di Santa Maria Novella. La cornice viene ad assumere, così, la funzione strategica di offrire un contesto per una successione tematica alle singole novelle. Trasmette, inoltre, un messaggio o un progetto di vita, restituendo, a un tempo, una visione del mondo immersa nella contemporaneità dell'autore e dei suoi lettori e che si realizza o, meglio, si motiva a partire da quella catastrofe.

Boccaccio, dunque, comincia il Decameron con la descrizione della “mortifera pestilenza” di cui è stato testimone diretto: ha visto morire familiari, amici e con loro un'intera generazione e ha assistito alla perdita concomitante del senso civico e morale della sua città, prima ricca e vitale. Ha camminato in strade abbandonate in mezzo ai cadaveri accatastati senza pietà sui carri, tra animali liberi di circolare come esseri “razionali”, tra il “puzzo” dei corpi in decomposizione.

Cominciare dalla registrazione di questo evento drammatico significa prima di tutto legare l'opera letteraria all'irruzione della storia, nel momento in cui essa coincide con le trasformazioni di una società e di una cultura. Lo scrittore, infatti, sente che è avvenuto un passaggio storico: la crisi economica e finanziaria di Firenze, che era iniziata già dal 1340 con i clamorosi fallimenti delle compagnie dei Peruzzi (1343) e dei Bardi (1346), acquista con la Peste Nera le proporzioni di un collasso politico e civile.

Ma occorre guardare anche ad altri segnali disseminati nel testo: come ha avvertito Lucia Battaglia Ricci, la “segnaletica grafica” impiegata nel manoscritto orienta e regola la comprensione del “progetto critico” dell'autore. 20 All'inizio e alla fine del suo manoscritto sono presenti il titolo (Decameron) e il sottotitolo (prencipe Galeotto), ma non il nome di Giovanni Boccaccio. 21 Il titolo e il sottotitolo delimitano il perimetro narrativo e disegnano i contorni di una struttura narrativa chiusa e programmata. La raccolta di novelle, proposte al pubblico dei lettori e delle lettrici è, così, un libro organizzato e strutturato, che si distingue, pertanto, dalle miscellanee precedenti di narrazioni “aperte”.

Il titolo è un neologismo grecizzante (deca “dieci” ed hemèron “giorni”) ed annuncia le dieci giornate narrative con un'allusione complementare all'Hexameron di Sant'Ambrogio. Lo scrittore immagina, infatti, che dieci giovani, lasciata Firenze durante l'epidemia, si rifugino a Fiesole e che nell'ameno paesaggio toscano raccontino una novella a testa per dieci giorni, con un totale di cento novelle.

Il sottotitolo (prencipe Galeotto) attiva un complesso reticolo intertestuale, che vale come paradigma poetico. In esso emerge la presenza della Commedia dantesca e, in particolare, del V canto dell'Inferno, in cui viene denominato “Galeotto” il libro che Paolo e Francesca “leggono per diletto”; ma non basta. Questa marca testuale, introdotta in due posizioni forti del manoscritto, è anche da leggersi come volontà di collocare l'opera entro la categoria formale della “letteratura per diletto”, inaugurata dai romanzi cortesi-cavallereschi d'Oltralpe di materia arturiana. Una letteratura per diletto alla quale lo scrittore ha voluto dare una veste editoriale ordinata e conclusa, segnata ora da un percorso e da un'esperienza esistenziale che matura di giorno in giorno. E l'origine di questo percorso, come si è visto, è tutt'altro che dilettevole: il Decameron si apre con un “orrido cominciamento” (lo scenario funesto della peste) che, però, assicura lo scrittore, condurrà a una zona piana e “dilettevole”.

5.2 La cornice come percorso salvifico

La metafora viatoria, chiaro richiamo al Dante viator della Commedia, illustra la prima finalità dell'opera. Se è vero che le cento novelle sono state scritte per allietare le “donne malinconose”, è altrettanto vero che nella cornice si compie un singolare processo di rinnovamento umano, spirituale e civile, quasi una rinascita. La peste del 1348, descritta all'inizio di questo cammino, scatena la crisi e il conseguente disfacimento della società fiorentina la quale, sgomenta e impreparata di fronte alla violenza del contagio, finisce con l'infrangere i principi tradizionali della convivenza e della solidarietà. L'incontro dei dieci giovani e la loro decisione di fuggire insieme dalla città sconvolta rappresenta una via di fuga dall'orrore e offre l' occasione di un cambiamento.

La peste segna la fine di un mondo, la brigata l'inizio di un altro. 22 La brigata rappresenta, dunque, un'élite sociale di giovani aristocratici, che desiderano recuperare o ricostruire un modello di vita perduto. Ma è anche un'élite letteraria, poiché essa si impegna intellettualmente a tradurre in parola, a formalizzare e a circoscrivere un nuovo immaginario narrativo. 23 E', infine, un'èlite che offre ai lettori e alle lettrici un itinerario salvifico alternativo al disordine cittadino e improntato all'equilibrio, alla ragione, alla bellezza, alla solidarietà e al quale, probabilmente, non è estranea una finalità pedagogica. 24

Le colline fiesolane sono uno scenario meraviglioso, classico locus ameonus che funge da rovescio scenografico della Firenze distrutta dalla peste, maleodorante e fetida. 25 Così i narratori si siedono in circolo su prati verdeggianti, all'ombra di alberi frondosi e tra chiare sorgenti d'acqua: quasi un paradiso terrestre, come afferma lo stesso scrittore, quando nella terza giornata la scena si trasferisce in una villa, circondata da una geometrica simmetria naturale. Il giardino è disegnato in modo concentrico ed è formato da corsi d'acqua, da filari di rose e di gelsomini, da alberi di arance e di cedri, che trovano un centro nella fontana “di marmo bianchissimo e con meravigliosi intagli”. Qui si muovono liberi e “ciascuno a suo diletto” gli animali: lepri, cerbiatti, conigli. In questo Eden, sospeso e lontano dalla realtà, si frantuma lo spaventoso scenario della peste, mentre i giovani possono recuperare un ordine e sperare in una rinascita. 26

L'istituzione di un re o di una regina per ogni giornata assicura una migliore organizzazione della vita del gruppo, secondo una precisa scansione delle ore dedicate al riposo e di quelle riservate ai racconti. I momenti conviviali sono curati nei dettagli (tovaglie bianchissime, bicchieri così brillanti da sembrare d'argento, ginestre disposte come decoro), nella ricerca del gusto (“finissimi” vini, “confetti” squisiti) e si concludono con danze e con canti: in particolare la sera viene cantata a turno una canzone o una ballata, a modo di epilogo di rito quotidiano.

Pampinea, eletta dalla brigata regina della prima giornata, è anche l'ispiratrice, a cui si deve l'iniziativa di abbandonare Firenze e l'organizzazione della piccola comunità. La giovane donna stabilisce l'impiego della servitù, adeguatamente divisa tra governo della casa (pulizia delle camere) e della cucina. Ma soprattutto è sua l'idea di passare le ore più calde della giornata raccontando novelle: “Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l'animo dell'una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell'altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto)” (Introduzione, 111). I giochi di società, come gli scacchi o la dama, non si adattano a una partecipazione largamente condivisa: solo i partecipanti riescono davvero a divertirsi e spesso questi giochi scatenano rivalità. Raccontare storie, invece, è, secondo il parere di Pampinea, un esercizio che può interessare e mobilitare piacevolmente tutta la “compagnia”. Anche chi ascolta ha, allora, un ruolo attivo e concorde.

Tuttavia anche il gioco narrativo comporta una regola: tutti i narratori dovranno esercitarsi su un tema, prescelto dal re o dalla regina della giornata. E dato che ogni regola ha le sue eccezioni, il disincantato e trasgressivo Dioneo otterrà di narrare per ultimo e rigorosamente “fuori tema”, mentre due giornate su dieci (la prima e la nona) sono lasciate alla libertà inventiva di ciascuno.

La scelta di trascorrere la giornata a far musica, a cantare e a parlare d'amore in un giardino, piacevole e fresco, durante le ore più calde del giorno, rientra nello stile e nei costumi della cultura cortese. In questo giardino paradisiaco, sottratto quasi per incanto al potere distruttivo della peste, i dieci giovani riescono a ricostruire e a rinnovare le forme di quella raffinata cultura.

Nella ricerca di ordine e di armonia, ottenuta attraverso una regolata organizzazione di vita e di pensiero, i dieci giovani riscoprono le ragioni di una morale positiva contro la dispersione di ogni senso di civiltà e contro la morte. Non solo sopravvivono ma ricostruiscono, progettano e sperimentano la possibilità di un rinnovamento interiore.

L'esperienza letteraria è, dunque, il mezzo che consente ai giovani di affrontare la molteplicità della vita e di descrivere la complessità del reale, secondo un'angolatura e una griglia tematica da loro stessi prestabilite. Tale prospettiva è contrassegnata dalla prima e alla centesima novella tra il cinismo di ser Ciappelletto (I, 1) e il magnanimo esempio di Griselda (X,1 0). E i narratori si muovono tra questi due esempi, opposti ed estremi, seguendo un preciso percorso tematico, che prevede narrazioni sulla Fortuna (II e III giornata), sull'Amore (IV e V), sull'Ingegno (VI, VII e VIII) e sulla Magnanimità (X).

Raccontare, dunque, diventa un'occasione per meditare sulle cose del mondo e degli uomini. La parola, come ha notato il critico Giorgio Bàrberi Squarotti, acquista nel Decameron un potere sorprendente, poiché attraverso di essa si inventa e si ragiona. Al racconto delle novelle, infatti, i giovani intrecciano commento e riflessione. 27 Nella cornice, tra una novella e l'altra, nasce, così, uno spazio dialogico, in cui i giovani si confrontano, esprimendo di volta in volta, a seconda dei temi trattati, sentimenti di stupore, di vergogna, di rabbia o di allegria. 28 Il dialogo, costruttivo e sereno, permette loro di rielaborare il contenuto delle novelle e di ripercorrere, attraverso gli esempi dei vizi e delle virtù dei protagonisti, i grandi valori laici dell'intelligenza e della tolleranza.

Raccontare diviene anche un gioco: la rinascita del gruppo di sopravvissuti ha luogo in una dimensione mondana, laica e terrena, che si concretizza nel piacere del cibo, della danza, del canto e dei racconti, anche provocatori e salaci. I giovani, però, nonostante la libertà di cui godono, non eludono mai le regole che si sono dati e i loro comportamenti rimangono nei confini di un'ideale vita comunitaria, costituita sull'ordine, sulla misura, sull'equilibrio.

Quasi per paradosso è Dioneo, il narratore più spregiudicato della brigata, a concludere la decima giornata con queste parole eloquenti:

“(…) secondo il mio giudicio, noi onestamente abbiam fatto, per ciò che se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle fossero ed attrattive a concupiscienza dette ci sieno e del continuo mangiato e bevuto bene e sonato e cantato (cose tutte da incitare le deboli menti a cose meno oneste), niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare: continua onestà, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire; il che senza dubbio in onore e servigio di voi e di me m'è carissimo” (X, concl. 5).

Armonia e amicizia fraterna sono i valori che hanno guidato la rinascita dei giovani e che si aggiungono alle virtù cortesi per eccellenza, come la magnanimità e la generosità, celebrate nella decima e ultima giornata. Un paradigma morale, “magnanimo” e “onesto” sanziona, alla fine del percorso della brigata, il raggiungimento di quella zona piana e “dilettevole” e la ricostruzione di un'esistenza civile fondata sulla parola che paradigma di valori.

5.3 Un'idea di letteratura

Il Decameron contiene numerose riflessioni sull'arte del narrare: nel Proemio, nell'Introduzione alla quarta giornata, nella Conclusione - nelle zone del testo altrimenti definite extradiegetiche - lo scrittore illustra alle sue lettrici la propria idea di letteratura. In questo senso il Decameron è anche un prezioso manuale teorico-pratico dell'arte novellistica e, come ha scritto Edoardo Sanguineti, è “ben altro che un'avveduta raccolta di narrazioni brevi: è una esplicita teoria dell'arte del novellare, e delle sue forme possibili”. 29

La novella è un genere narrativo dalla mutevole morfologia, variamente composto da diversi temi e da diversi schemi narrativi: “novelle o favole o parabole o istorie”, come si legge nel Proemio. L'individuazione del destinatario ideale dell'opera (le donne), la rappresentazione del narrare (fondata sull'oralità), la definizione degli obiettivi della narrazione (consolazione, diletto e utilità), la riflessione sullo stile (la pluralità di codici stilistici) sono tutti elementi che rivelano una acuta consapevolezza critica. Nel Proemio e nella Conclusione Boccaccio presenta la novella quasi fosse un organismo vivente, capace di adattarsi alla complessità della realtà e del suo immaginario. 30 Così la narrazione breve medievale, ancora generica e fluttuante, si allarga e si unifica in una terminologia flessibile, non ancora codificata, che accoglie i mondi narrabili di un così eterogeneo patrimonio narrativo. Nella Conclusione lo scrittore, poi, torna a ragionare sulla molteplicità dei temi e degli argomenti e ricorre alla metafora del “campo ben coltivato”, che può contenere anche “erbacce” ( i racconti più trasgressivi, come quello di Ciappelletto, I, 1) oppure le “erbe migliori” (i racconti più edificanti, come Griselda X, 10): "Conviene nella moltitudine delle cose diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra le erbe migliori".

Nella diversa caratterizzazione di “genere” le cento novelle restituiscono la multiforme varietà della vita con una libera scelta di sviluppi alternativi, attraverso il suggerimento di una lettura liberamente antologica. Di là dall'ordine prestabilito della brigata, Boccaccio suggerisce alle lettrici di puntare anche sulle rubriche, che precedono le novelle, per cercare tra le ortiche e le “erbe migliori”.

Ma il discorso critico ha anche come oggetto il pubblico a cui indirizzarsi: ossia le donne. Nell'Introduzione alla quarta giornata lo scrittore si difende dalle accuse di essere troppo indulgente con loro e ribadisce la propria inclinazione, letteraria e umana, in quanto essa non solo è radicata nell'animo di ogni uomo a partire dall'infanzia e dal rapporto con la madre, ma è (come esemplifica con la metanovella delle papere) un istinto insopprimibile e incontrastabile: “Le quali forze io confesso che non l'ho né d'averle desidero in questo”. Aggiunge, infine, che non è il solo a fare questa scelta: anche poeti come Dante, Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia si sono rivolti in età matura ad argomenti amorosi.

Per Boccaccio, dunque, le donne prima di tutto amano ("alle quali del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete"), leggono per diletto e per consolazione, sognano, fantasticano e inventano. Sono il centro nevralgico dal quale si dipartono suggestioni poetiche (la donna, ispiratrice del poeta), ma nel quale avviene il processo della comunicazione letteraria: dall'invenzione (le sette donne narratrici) alla ricezione (le donne lettrici). Si delimita, così, il campo della comunicazione letteraria con un destinatario esterno (le donne) e uno interno (i narratori della brigata). In altre parole lo scrittore mette in scena la rappresentazione dell'oralità narrativa con la storia dei dieci giovani, che recitano agli altri compagni le loro novelle. Boccaccio è solo l'autore (l'autore implicito) che si limita a trascrivere i racconti dei dieci narratori (ovviamente nel gioco della finzione scenica) e tutto il resto (la storia della “cornice”) per il suo pubblico femminile. Nella “cornice”, invece, i giovani della brigata sono insieme narratori (a turno) e ascoltatori (o destinatari).

Si ha, dunque, una duplice comunicazione letteraria, concertata un piano extradiegetico (dove emerge la natura prevalentemente letteraria del dialogo tra lo scrittore e le sue lettrici) e su un piano intradiegetico (nel quale, invece, si celebra la funzione dell'oralità come veicolo principale della trasmissione di unità narrative tra il narratore di turno e gli altri nove ascoltatori). 31

Tra Proemio, Introduzione alla IV giornata e Conclusione si accerta, in definitiva, che il Decameron è un'opera letteraria scritta per consolare, per distrarre e infine per offrire qualche utile consiglio a tutte le “donne malinconose” e “innamorate”, le quali, isolate dal mondo, non possono trovare altro conforto alle loro angosce amorose.

Una seconda finalità viene dalla storia dei dieci giovani narratori e dal rapporto tra la fuga dalla distruzione di un mondo (la peste) e la ricostruzione di un nuovo stato morale e sociale. In un certo senso i giovani della brigata intraprendono un cammino parallelo a quello riflesso delle ipotetiche lettrici di Boccaccio, proponendo con il loro esempio un nuovo stile di vita. Queste due finalità convergono in un punto: entrambe presuppongono un tipo di letteratura che preveda una fruizione insieme spensierata e proficua.

Nella prima novella della sesta giornata Madonna Oretta deve subire lo strazio di un maldestro narratore, il quale racconta male e disordinatamente una storia che doveva essere bella. Ciò significa che la novella deve innanzitutto dilettare e divertire chi la legge o la ascolta: occorre una certa abilità e una felice ricerca formale. Ma al contempo essa deve orientare e comunicare un messaggio, unendo l'utile al dilettevole con un chiaro rimando alla poetica oraziana. Boccaccio tenta, così, la via di un delicato equilibrio tra piacere e utilità della lettura, fra leggerezza e gravità: solo le donne “oziose” e non gli “studianti” possono davvero trarre profitto dalla lettura del Decameron. Chi legge solo per “utilmente adoperare il tempo” (come gli “studianti”) senza diletto o piacere, non è, per ammissione dello stesso autore, il suo lettore ideale.

5.4 Realismo linguistico e pluralità dei codici linguistici

Nel traghettare la realtà circostante nel mondo di finzione lo scrittore plasma il volgare fiorentino su un registro stilistico molto vario: dal codice alto e retoricamente affinato delle parti introduttive o extradiegetiche (le riflessioni autoriali) allo stile mimetico ed espressionistico del “parlato” di molte novelle, che giunge sino alla deformazione linguistica e alle “storpiature”, agli anacoluti e ai giochi di parole grotteschi. E' una scrittura viva e realistica, che riproduce in modo icastico ambienti, oggetti e usi del vivere quotidiano. E' quello che lo studioso Vittore Branca ha definito “espressivismo” e che Boccaccio ha mediato dal Dante poeta della Commedia, ma anche dal teorico del De vulgari eloquentia. 32 Il volgare fiorentino appare, a volte, mescolato con termini, espressioni o modi di dire e proverbi di altri volgari italiani, adattati in una prosa prevalentemente ampia e ipotattica, anche se alternata, soprattutto nelle parti dialogiche, con una forte e incisiva paratassi. Sul piano sintattico ne viene un singolare movimento: ai periodi lunghi e complessi si sovrappongono frasi brevi e scambi di battute veloci tra i personaggi. Senza dubbio (grazie anche al narratore più impertinente della brigata, Dioneo) il registro comico e realistico è quello che prevale. Anche Boccaccio ne discorre nella Conclusione, quando si difende dall'accusa di aver eccessivamente adoperato un lessico sconveniente e afferma che la sua penna è come il pennello di un pittore: così come il pittore riproduce la realtà il più fedelmente possibile, anche la sua prosa vuole riprodurre al meglio le diverse parlate dei personaggi, con i loro ammiccamenti ed epiteti coloriti. La ricerca di una mimesi realistica è senza dubbio al centro di questa narratività mobile e corposa, senza tuttavia escludere incursioni nell'universo magico del meraviglioso.

5.5 Il fantastico mondo dei viaggi, dei sogni, delle avventure

“Il genere di racconti che si ritrovano in prevalenza nel Decameron, ha scritto André Jolles, “possono essere paragonati alle piante. Sono nati da qualche parte in qualche tempo. Oppure prima ancora che nascessero si può indicare un luogo specifico da dove si sono irradiati, celati ancora alla nostra attenzione”. 33 La multigenesi delle novelle squaderna una vasta geografia del mondo e dell'anima: fonti classiche, mediolatine, romanze, orientali sono riprese e rielaborate in modo libero ed originale; alla fine il suo libro di novelle è come un campo ben coltivato, le cui piante, esotiche o locali, sono nate “da qualche parte” e in “qualche tempo”. 34

L'immaginario geografico decameroniano scorre tra l'Italia (la Sicilia, Napoli o Firenze) la Francia, l'Inghilterra, il Mediterraneo e la costa mediorientale. Anche il lontano e fantastico Oriente, con la Cina in primo piano, fa il suo ingresso nell'ultima giornata con la novella di Mitridanes e Natan (X, 3).

L'Oriente, come aveva intuito Borges, è qualcosa di vasto “di immobile, di magnifico, di incomprensibile”. 35 E il fascino della cultura araba, tradotta e tramandata in occidente dai centri di cultura di frontiera, come Toledo e Palermo, agisce nel Decameron come una nuova fucina del mirabile narrativo. E' il caso per esempio, tutto orientale, del volo di messer Torello, che attraversa il Mediterraneo addormentato su un letto magico, colmo di stupefacenti ricchezze (X,9). Il magico volo di Torello, da Oriente a Occidente, ha richiamato nuovi studi riguardo l'importante posizione occupata dalla cultura orientale nella finzione decameroniana. 36 L'indubbio realismo espressivo, che si fa concreto nelle descrizioni dell'ambiente, delle classi sociali e della quotidianità dei tanti personaggi, si unisce ad un immaginario più mutevole e sensibile alla dimensione del mirabile, del fantastico e del meraviglioso, che sovverte in parte l'ordine o la logica della realtà quotidiana. E sono le narratrici, in particolare, a imporre i temi dell'avventura e della magia, soffermandosi anche su aspetti estremi, visionari e macabri. Filomena, ad esempio, è la prima a introdurre situazioni macabre con l'orribile descrizione del cadavere di Ambrogiuolo, il perfido beffatore di Bernabò e Zinevra. Sempre di Filomena è la novella di Lisabetta da Messina, folle innamorata che coltiva in un vaso di basilico la testa dell'amante o la storia di Nastagio degli Onesti (V,8), i cui bagliori visionari, infernali e ossessivi risultano straniati dalla realtà. Emilia a sua volta racconta di un giardino magico (X, 5) ed Elissa immagina la grottesca e mirabile terra di Bengodi, meta agognata di Calandrino.

I sogni premonitori di Talano da Imola (IX, 7), di Andreuola e di Gabriotto (IV, 6) di Lisabetta (IV, 5), la visione di Nastagio degli Onesti (V,8), anche nella loro concreta crudezza, rimandano ad una paura ancestrale della morte e gettano un'ombra inquieta sulle zone più spensierate e gioiose del Decameron; quasi come una regione cupa, che emerge improvvisa e che prolunga l'eco narrativo dell'“orrido cominciamento”. Vero è che con la novella di Nastagio degli Onesti, lo scrittore rielabora il tema della macabra caccia infernale e la punizione della donna crudele secondo un'antica tradizione “esemplare” europea. Sono molte, infatti, le affinità tra la novella boccacciana e un racconto esemplare, contenuto in una raccolta di prediche, intitolata lo Specchio di vera penitenza, di un monaco domenicano fiorentino contemporaneo di Boccaccio: Iacopo Passavanti. Ma l'insistenza nel descrivere lo strazio delle carni della peccatrice ha una forza del tutto nuova, con una visione orribile e raccapricciante, al punto che lo stesso pubblico invitato ad assistervi ne rimane profondamente turbato e spaventato. L'immagine si fa incubo, ossessione notturna come quella successiva del lupo che “squarcia tutta la gola e 'l viso” della moglie di Talano (IX, 7).

Tuttavia il “piano dilettevole” resta sempre in controluce: l'avventura e la peripezia, presenza forte nella trama delle novelle, sono gli ingredienti collaudati del romanzo bizantino e della tradizione cavalleresca medievale. L'avventura diventa nel caleidoscopio decameroniano una mirabile prova che buona parte dei personaggi (uomini o donne, mercanti o pensatori, nobili o plebei, chierici o laici) devono saper affrontare. Il commercio moltiplica gli spostamenti in terre lontane e spesso ignote: i mercanti viaggiano, esplorano nuovi orizzonti culturali e mettono alla prova la propria tenacia, la capacità di “saper vivere”, il coraggio e il piacere del rischio nel solcare i mari e nell'affrontare prodigiose avventure. E' uno spirito ottimista e solare, felicemente descritto in un motto con cui Boccaccio ritrae il coraggio di Landolfo Rufolo (II, 4): “meglio fare e pentersi che starsi e pentersi”. Allo stesso modo nella novella di Bernabò e di Zinevra (II, 9) si possono riconoscere le diverse sfumature dell'ardimentoso mondo mercantile. L'accesa discussione tra mercanti sulla fedeltà coniugale viene realisticamente ambientata in una taverna di Parigi, così come la sorprendente reazione della moglie, Zinevra, interpreta a pieno la spregiudicatezza di un nuovo stile di vita: per difendere la propria dignità la donna si traveste da uomo, assume un nuovo nome, Sicurano, e diventa persino il “braccio destro” del Sultano.

I complicati e imprevedibili intrecci delle vicende, che si sovrappongono e si affollano, a volte contribuiscono a creare i contorni sfumati di un “altrove” irreale. Nel viaggio, ad esempio, si amplia la geografia del mondo e la geografia dell'animo umano, come ricerca non solo di un luogo ma anche di un'identità interiore: ed è ciò che accade nell'avventura vertiginosa e paradossale della vergine Alatiel (II,7). I viaggiatori decameroniani a volte ritrovano se stessi, recuperando fortunosamente e felicemente ciò che hanno perduto.

La tensione del racconto scaturisce dal superamento dei confini conosciuti, con storie di mari in tempesta, di pirati, di isole deserte, di ritrovamenti e di ricchezze favolose, vissute anche da chi narra, per dirla con Alberto Asor Rosa, come in “un grandioso sogno di liberazione fantastica”. 37

5.6 La celebrazione dell'intelligenza: motti, beffe e controbeffe

La prontezza di spirito non si manifesta solamente nella capacità di vivere mirabili avventure, poiché anche nella quotidianità i personaggi hanno più occasioni per mettersi in gioco. Così una parte notevole del Decameron (dalla sesta all'ottava giornata) è dedicata all'esercizio brillante dell'intelligenza, che si manifesta nelle battute di spirito (VI giornata), nelle beffe (VII giornata) e nelle controbeffe (VIII). In queste giornate lo scrittore rappresenta i comportamenti caratteristici della civiltà cittadina, così come si dispiegano nella vita di tutti i giorni.

Nelle cento novelle si rispecchiano tutte le classi, dagli esponenti più antichi del mondo feudale e cavalleresco alla più recente borghesia comunale dei mercanti e alla categoria - non meno intraprendente - degli oratores, ossia degli intellettuali. 38 Ecco così rappresentato il mondo clericale (con abati, badesse, suore e frati), il mondo laico, dove insieme ai re e alle regine si muove un'umanità eterogenea che dal basso (tra donne astute, ladri, artigiani, umili lavoratori e servi) giunge agli ambienti universitari (con giuristi, medici e studenti) e alle famiglie aristocratiche. Ma non sono più gerarchie rigide, poiché le disuguaglianze sociali possono essere superate grazie a luminose manifestazioni di intelligenza e di abilità personali. Anche un re (il longobardo Agilulfo, per esempio III, 2) può essere beffato dal suo stalliere e alla fine riconoscere al suo sottoposto e antagonista una pari grandezza.

Tutti i personaggi, anche quelli di bassa condizione, possono riscattarsi con l'esercizio della virtù, la quale può assumere nei casi più alti le forme della magnanimità e della generosità, ma che più frequentemente si realizza nella prontezza delle risposte e nell'arguzia dell'espressione (il motto di Cavalcanti, per esempio, VI, 9 ), nel fronteggiare le situazioni più complicate, come nel caso delle beffe e delle controbeffe. La capacità di risolvere positivamente situazioni complesse è chiamata da Boccaccio “industria”, alla quale è dedicata tutta la terza giornata.

L'esercizio dell' “industria” è richiesto dalla mutevolezza della condizione umana: gli uomini e le donne sono continuamente sollecitati da forze naturali, potenti e irrazionali, che intrecciano a loro capriccio gli avvenimenti: la Fortuna (ossia la sorte, il destino) e l'Amore. 39 Sono forze che tessono trame misteriose, nelle quali restano intrappolati molti personaggi, come il caso “picaresco” del giovane Andreuccio da Perugia (II, 5) e di tanti altri. La soluzione ai grovigli avventurosi non viene da un provvidenziale intervento divino, ma deve scaturire dall'abilità degli stessi protagonisti, chiamati con il loro ingegno ad affrontare il mutevole flusso degli eventi.

I “motti” sono brevi battute di spirito, che possono servire a scongiurare un pericolo, a esprimere ironicamente un giudizio oppure a sottolineare una qualità personale: sono brevi frasi “ad effetto”, sempre “leggiadre” e civili, mai “villane” o crudamente offensive.

Tutte le categorie sociali partecipano a questa sorta di “gara” della intelligenza con l'arma della parola: dal cuoco Chichibio (VI, 4), al fornaio Cisti (VI, 2) fino all'aristocratico Cavalcanti (VI 9). Tutti, uomini e donne, possono dimostrare la sottigliezza del proprio ingegno, a seconda delle diverse prerogative: il cuoco, ad esempio, grazie alla sua pronta risposta viene idealmente promosso a un rango superiore, non molto lontano dall'aristocratico poeta-filosofo Cavalcanti. L'eccellenza nel motteggiare viene, comunque, riconosciuta al Cavalcanti: la sua criptica risposta è allo stesso tempo elegante e pungente, sfiora il limite della “villania”, senza tuttavia dichiararla.

Durante una passeggiata nel cimitero di Santa Reparata Guido viene disturbato dalle domande impertinenti di un gruppo di giovani aristocratici, capeggiati da Betto Brunelleschi. Per difendersi replica: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”. La misteriosa frase è tuttavia compresa dal Brunelleschi, che intuisce il nesso implicito tra “casa” e “cimitero”. Affermare che quei giovani nel cimitero sono come a casa loro equivale a dire che sono intellettualmente “morti”, come spiegherà Betto Brunelleschi alla fine della novella. Dopo questa frase Cavalcanti esce di scena, liberandosi con un leggero salto dal gruppo dei provocatori: “sì come colui che leggerissimo era”. E', come dirà Italo Calvino, la “leggerezza della pensosità”, che fa apparire “la frivolezza come pesante e opaca”. 40 E', infine, il riscatto degli intellettuali che, esattamente come i giovani della lieta brigata, riescono a determinare la realtà circostante con la forza delle parole.

Diversa è invece la fenomenologia della “beffa” (una finzione, più o meno complicata, che viene architettata per raggiungere uno scopo pratico): se nella settima giornata “si ragiona delle beffe, le quali per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a' suoi mariti”, nell'ottava si racconta di “quelle beffe che tutto il giorno o donna o uomo o l'uno all'altro si fanno”. Nel primo caso la beffa è un modo abile e arguto per sottrarsi a situazioni difficili o scandalose: quasi sempre sono storie d'adulterio, di incontri furtivi tra amanti. Nel secondo essa viene pensata e messa in pratica per il solo gusto dello scherzo. E' l'ingresso del registro comico-grottesco, dove gli intrecci amorosi sono spesso portati al limite del paradossale: ad esempio Peronella e il suo amante beffano il marito nella maniera più ardita e spericolata (VII, 2).

Le beffe e le “controbeffe” (cioè le beffe reciproche) di mariti, mogli e amanti rappresentano l'aspetto più irriverente di quell'arte del "saper vivere" celebrata da Boccaccio in tutta la sua opera. Attraverso di esse lo scrittore rappresenta un mondo fino a quel momento sommerso: il mondo della carnalità e degli impulsi sessuali, dove il vero protagonista è il corpo, con le sue più irrefrenabili pulsioni. Tra i desideri trova posto anche l'immagine della terra di Bengodi, dalle montagne di formaggio e dai fiumi di vernaccia ed è il sogno di Calandrino, un simpatico sempliciotto che compare in ben quattro novelle (VII, 3 e 6; IX, 3 e 5). Calandrino è il personaggio comico prediletto e le novelle che lo vedono protagonista “contengono - come ha scritto Muscetta - pezzi di commedia”. Personaggio realmente esistito era un pittore-artigiano, originario della campagna, appartenente a quelle “nuove genti”, come le definisce Boccaccio, da poco inurbate. E' in poche parole un uomo goffo, stupido e ignorante: la vittima ideale e predestinata di ogni scherzo, anche il più crudele.

In una delle sue disavventure i suoi beffatori, Bruno e Buffalmacco, riescono addirittura a convincerlo di essere rimasto “incinto”. Il malcapitato comincia persino a sentirsi male, cercando un medico che possa aiutarlo, perché non vuole partorire. La disperazione di Calandrino è comica e grottesca: con forti allusioni alla fisicità e alla sessualità (la posizione della moglie durante l'atto sessuale oppure la ricerca di un'“uscita” convenevole del pargolo). Il tutto avviene per puro divertimento, ma anche per riuscire a “rubare” qualche soldo a Calandrino.

Con la beffa, dunque, lo scrittore celebra in modo scanzonato e magistrale l'ingegno dei suoi personaggi, che può esprimersi nell'arte di creare situazioni assurde e illusorie, che divengono reali ai danni del beffato. D'altronde il Decameron esordisce con il più grande e spregiudicato tra i beffatori: ser Ciappelletto, che riesce a ingannare un santo frate con una falsa confessione, resa in punto di morte.

Ciappelletto è un uomo malvagio, è un assassino, un ladro, un falsario, un usuraio. Ha commesso, con convinzione e piacere, innumerevoli azioni delittuose. Non ha paura di nulla, nemmeno della morte o del giudizio di Dio: per salvare la propria reputazione o per il gusto di commettere il peggiore dei peccati (il narratore non lo chiarisce), poco prima di morire capovolge con l'arte della menzogna la situazione. Il frate, convinto della veridicità della confessione, benedice la sua vita santa e irreprensibile, ormai sulla strada della beatificazione. Quella di San Ciappelletto è una sorta di parodia delle false confessioni, che tentavano di riscattare in punto di morte una vita di peccati, mentre si esalta ancora una volta il potere della parola, anche nell'universo dell'inganno. Il racconto proietta una luce ambigua e sinistra sull'uso perfido e spregiudicato dell'intelligenza: Ciappelletto è, in primo luogo, un notaio, un protagonista di quella categoria degli oratores altrove positivamente celebrati.

Con la prima novella del Decameron lo scrittore affronta anche la questione religiosa, tema sotterraneo dell'intera opera. La polemica non è contro la fede, mai messa in discussione, ma contro il clero, accusato di corruzione, malvagità e ipocrisia. Sul filo del paradosso nella seconda novella della prima giornata il giudeo Abraam si converte alla religione cattolica dopo aver visto di persona l'estremo grado di corruzione della Chiesa: con un ragionamento logico si dichiara convinto dell'esistenza dello Spirito Santo, che è l'unico fondamento dell'espansione della fede cristiana. Il clero viene rappresentato con colori grotteschi: frati e suore che non si appagano nella vocazione monastica ma che si abbandonano al piacere, a volte persino sfruttando in modo ingannevole il ruolo ecclesiastico o le superstizioni popolari per fini tutt'altro che spirituali, con quella che lo scrittore chiama “la malvagia ipocrisia de' religiosi”.

5.7 Le molteplici e mirabili manifestazioni dell'amore

La polemica anticlericale si concentra soprattutto sul tema della passione amorosa. Boccaccio presenta i religiosi negli intrighi più curiosi e anomali, governati dall'irresistibile forza della sessualità. Come si mostra nella metanovella delle papere, che si trova nell'Introduzione della quarta giornata, l'eros è un impulso irrazionale dell'animo, che non può essere frenato o negato. La sessualità prorompe nell'universo antropologico del Decameron, ponendo sullo stesso piano uomini e donne di tutte le classi: preti, suore, monaci e abati, stallieri e regine, servi e padroni. E sono i tre uomini della brigata a inventare i personaggi più spregiudicati e trasgressivi: da Ciappelletto, di cui narra Panfilo, a Peronella, protagonista della narrazione di Filostrato, per finire con le invenzioni del liberissimo e irrefrenabile Dioneo.

La disinvolta libertà con la quale lo scrittore ha portato sulla pagina l'universo erotico ha avuto nei secoli un'eco straordinaria, al punto che questo aspetto è diventato prevalente nella ricezione del Decameron: non a caso l'aggettivo “boccaccesco” definisce, ancora oggi, un eros beffardo, giocoso e ridanciano. D'altronde lo stesso scrittore è così consapevole della propria creatura che nella Conclusione invita le lettrici pie e zelanti ad astenersi dalla lettura di certe novelle.

Ma la sensualità è solo una parte del più complesso organismo decameroniano. Non tutte le storie d'argomento amoroso si risolvono nell'esaltazione del corpo e c'è posto anche per altri comportamenti ed emozioni da ricondurre alla realtà dinamica e complessa dell'“amore”. Un'intera giornata è dedicata agli amori infelici (la quarta), mentre in altre novelle vengono raccontate storie di teneri innamoramenti, di grandi amicizie e di generose prove d'amore. Nella quinta giornata la nobile figura di Federigo degli Alberighi proietta il sentimento amoroso su uno sfondo del tutto diverso, introducendo il duplice tema dell'amore e dell'etica cavalleresca. E' per amore che Federigo sacrifica il suo amato falcone, riuscendo, dopo una sofferta attesa, a conquistare la donna amata. Il raggiungimento della felicità amorosa per Federigo è anche la fine di un modo di vivere improntato all'etica cavalleresca, in cui la generosità e la magnanimità sovrastano ogni cosa. Se come cavaliere Federigo si era rovinato economicamente, con il matrimonio diventa finalmente un buon “massaio”, convertito alla prassi del mondo borghese, all'etica del calcolo e del denaro.

Mentre Federigo abbandona per amore il proprio mondo ideale, Boccaccio, invece, intende conservarlo, proponendo ai suoi lettori un'intera giornata (la decima) dedicata alla generosità e alla magnanimità. Qui i narratori fanno a gara nel raccontare storie di incredibili generosità e magnanimità umane: il distacco dalle passioni negative e dall'astuzia proterva è totale, non ci sono “Ciappelletti” ambigui e inquietanti, ma re giusti (re Piero, re Carlo e re Alfonso), banditi generosi (Ghino di Tacco), ricchi cortesi (Mitridanes e Natan), cavalieri che resuscitano gentildonne (Gentil Carisendi), casi di amicizia esemplare (Tito, Sofronia e Gisippo o messer Torello e il Saladino), eroine virtuose (Griselda). Sono racconti improntati a casi eccezionali e straordinari: l'aggettivo "maraviglioso" è usato spesso per rimarcare il fatto che queste novelle si pongono deliberatamente al di fuori del comune e quotidiano succedersi dei casi umani.

Si sente l'eco dantesca della tensione ideale e spirituale degli "spiriti magni" del Limbo e delle anime magnanime del Paradiso; ma a differenza di Dante, Boccaccio riconduce questa tensione dal cielo alla terra, al teatro degli uomini e dei loro costumi. 41 Così la brigata approda a un mondo dove non vi sono gelosie, inganni e beffe: re, banditi, cavalieri, dame, sultani e mercanti riconoscono tutti il rispetto dell'altro e il principio di una convivenza concorde. Anche la commedia umana del Decameron, di giornata in giornata, è una sorta di itinerario attraverso l'esistenza e si traduce, con la sua prodigiosa enciclopedia umana, in una visione del mondo aperta sul futuro.

6. Gli studi eruditi e il Corbaccio

Negli anni successivi al Decameron Boccaccio intensifica la sua dedizioni agli studi, sollecitato anche dall'incontro e dall'esempio di Petrarca. E' l'inizio di una svolta e di un nuovo orientamento intellettuale, che lo vedrà impegnato nella stesura di ampie opere di erudizione di carattere enciclopedico e nello studio attento dei classici.

La passione per la cultura è ben documentata nello Zibaldone Magliabechiano, con appunti e trascrizioni, che confermano gli interessi eclettici dello scrittore, così come nel corpus di venticinque Epistole latine è possibile individuare il percorso dell'umanista. Così nelle lettere indirizzate a Petrarca (II, VII, X, XI, XV) Boccaccio descrive il suo rinnovato amore per lo studio dei classici, sulla scorta dell'insegnamento del maestro, mentre in una lettera in volgare, la Consolatoria a Pino de' Rossi (1361-62), concepita sul modello antico delle “consolatorie”, porta la sua meditazione sulla natura dell'otium umanistico. Un'altra lettera che merita di essere ricordata è l'epistola a Francesco Nelli del 1363, dove Boccaccio racchiude la sua sfortunata missione napoletana del 1362.

Bisogna aggiungere che, insieme con la produzione poetica in volgare, Boccaccio non ha mai trascurato la composizione di opere in latino. A partire dall'Elegia di Costanza (1332 ca) ecco un carme (Ytalie certus honos) di accompagnamento a un codice della Divina Commedia di Dante Alighieri inviato a Petrarca, alcune epistole metriche e il Buccolicum carmen (1349-1367), una raccolta di sedici egloghe scritte sulla falsariga di Virgilio, riproposto negli stessi anni dal Petrarca. Oltre ad un inventario della cultura geografica classica (il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris liber, 1355-1360) in questi anni Boccaccio si dedica a scrivere anche impegnativi trattati eruditi.

Il De casibus virorum illustrium (1355-1373), suddiviso in nove libri, raccoglie esempi storici moralizzati per illustrare la vita di personaggi eminenti dall'ascesa al potere alla loro rovina (“casus” significa “sventura”). L'intero trattato si basa sul presupposto teologico dell'intervento di Dio nella storia, che sottopone al suo giudizio i personaggi portati in rassegna. Gli eroi decaduti (da Adamo ed Eva all'età contemporanea) appaiono all'autore sotto forma di visione e ricordano la vita passata, con una narrazione conclusa sempre da precise riflessioni morali sui vizi e sulle virtù del genere umano. Anche questo trattato, che rivela l'influenza petrarchesca, è costruito su una molteplicità di fonti, classiche, cristiane e cronachistiche, ma è un'erudizione che non si chiude in se stessa, in una biblioteca silenziosa e appartata, perché si apre alla realtà contemporanea e ricava dal presente una meditazione sull'esistenza e sul suo mistero.

Lo stesso impianto moraleggiante si ripropone anche in una raccolta di biografie latine di donne illustri (De mulieribus claris, 1361-1362), dove Boccaccio si richiama esplicitamente a Petrarca e al suo De viris illustribus.

Ancora più imponenti sono le Genealogiae deorum gentilium, pensate e composte in varie fasi tra il 1350 e il 1372: un trattato latino di mitografia, suddiviso in quindici libri, con un proemio per ogni libro, che presenta la divinità prescelta e vi accompagna la riflessione morale, religiosa e storica corrispondente all'esempio mitologico.

Il proposito umanistico è evidente nel mosaico ordinato delle fonti, quasi duecento autori latini e mediolatini in un arco temporale che da Aristotele giunge sino al maestro Petrarca. Ma ciò che ha interessato maggiormente la critica in questi ultimi anni si legge negli ultimi due libri (XIV e XV): un alto ragionamento sulla natura e sull'origine della poesia, scritto probabilmente sulla scorta delle conversazioni con Petrarca intorno al concetto di “verità” della favola poetica. Ed echi di queste riflessioni teoriche sui fondamenti della scrittura narrativa e d'invenzione si ritrovano poi nelle due lettere Senili di Petrarca a Boccaccio, che racchiudono la traduzione petrarchesca in latino umanistico della novella di Griselda, l'ultima del Decameron (Sen XVII, 3 e 4).

L'ultima opera creativa dello scrittore è il Corbaccio, la cui datazione oscilla tra il 1355 e il 1366-'67: ed è un'opera enigmatica, che sembra ribaltare decisamente l'orientamento ideologico sotteso al Decameron. Persino il titolo non risulta di facile decifrazione: la parola “corbaccio” può derivare da “corvo”, uccello malaugurante, oppure dal latino corba, parola oscena sinonimo di “nicchio” o ancora dallo spagnolo corbacho, “frusta”. Nelle due ultime ipotesi si tratterebbe di un riferimento al tema trattato, che riguarda da un lato l'amore senile dell'autore per una vedova (per il latino “corba”) e dall'altro l'aspra invettiva o “frustata” contro tutte le donne (dallo spagnolo “corbacho”): non è da escludere, infine, il gioco di parole tra Corbaccio e Boccaccio. Secondo lo studioso Roberto Mercuri, la parola “corbus” (“corvo”) si lega all'attività del predicatore e il gioco verbale indicherebbe “la frattura nella sua esperienza tra il novellatore-narratore e il predicatore: di conseguenza il Corbaccio sarebbe Boccaccio stesso; l'amore da materia piacevole di ragionamento, è divenuto materia di riflessione e si realizza come moralità”. 42

In effetti il Corbaccio spezza una linea di esperienza e rovescia la logica narrativa del passato con una requisitoria contro le donne viene spinta ai limiti dell'irriverenza. E il tema dell'amore, soprattutto se vissuto in età matura, viene calato ora entro la rigida ottica di moralista, con la sua convinzione borghese che non convenga perdere il proprio tempo a rincorrere donne ritrose. Secondo l'intenzione dell'autore l'opera vuole essere un “umile trattato”con uno scopo dichiaratamente didascalico etico-religioso. Non è un'opera di “diletto”, ma viene scritta esclusivamente per l'“utilità” di tutti i suoi giovani lettori (e non per le lettrici). La conseguenza è il rovesciamento parodico di tutti i grandi motivi della letteratura cortese a fronte dell'esaltazione del mondo classico. A ben guardare, dunque, il Corbaccio invaliderebbe non solo la poetica del Decameron (per cui narrare è unire l'utile al dilettevole), ma annullerebbe anche tutte le precedenti dichiarazioni sulle donne e sull'amore, sulla libertà e sulla sessualità gioiosa, facendo compiere allo scrittore una rapida, quanto tardiva, retromarcia. Resta però il fatto che Boccaccio continua anche a lavorare al suo Decameron, come attesta il preziosissimo Hamilton 90, l'autografo conservato alla Staatsbibliothek di Berlino.

Secondo una interpretazione recente dell'opera, il Corbaccio non sarebbe solo un'opera di pentimento o di contrizione, composta da un anziano Boccaccio, chiuso nei suoi studi e nella meditazione religiosa (era infatti divenuto chierico nel 1360), ma piuttosto un'opera sperimentale, che si iscrive in una lunga tradizione misogina moraleggiante che dai classici latini (per esempio, Giovenale) giunge a San Girolamo: ed è l'ultima opera di uno sperimentalismo più che mai attivo e costante. In definitiva Boccaccio riprende il genere della satira misogina, che aveva già affrontato più volte - in particolare in una novella del Decameron, in cui uno studente si vendica crudelmente di una vedova (VIII, 7) - nel tentativo di rilanciare le tecniche della scrittura burlesca e basso-realistica, di nuovo nel solco dell'espressivismo linguistico dell'Inferno dantesco.

Non bisogna qui dimenticare che in questi ultimi anni Boccaccio approfondisce ed estende lo studio e l'interpretazione delle opere dantesche, in particolare della Divina Commedia (con il Trattatello e con le Esposizioni). Una dedizione che ritorna nel Corbaccio nella scelta di un lessico colorito e icastico e che, in questo caso, si incarica di mettere a nudo l'aspetto ripugnante che, a volte, può nascondersi dietro ad un volto femminile: è, di fatto, un capovolgimento parodico e beffardo della teoria amorosa precedente (e della donna-angelo) che trionfa nella descrizione orrenda della vedova. Come ha suggerito Edoardo Sanguineti il Corbaccio è un “bricolage post-dantesco”, dove è dantesco “prima di tutto, il regime topico che governa la costruzione dell' “operetta” e in cui convivono, alla pari, le suggestioni della Vita Nuova e della Commedia, assunte come dizionari ed enciclopedie, ad un tempo, per l'immaginario e l'espressione”. 43

A smentire l'immagine univoca di un rigore senile, ormai lontano dalla stagione della libertà narrativa, resta il Boccaccio della commedia umana, l'erudito grave e raccolto, chino sul manoscritto del Decameron, per ritoccarlo e illustrarlo come sulla creatura più cara e più viva della sua officina letteraria. Nell'autunno acceso del Medioevo il vecchio scrittore può ancora sorridere in compagnia dei suoi fantasmi e delle sue immaginazioni.

 

Bibliografia

Nelle maggiori storie letterarie si possono trovare fondamentali studi complessivi sull'opera di Giovanni Boccaccio. Si veda in particolare: N. Sapegno, Storia letteraria del Trecento, in La Letteratura italiana. Storia e testi, Ricciardi, Milano-Napoli 1963; C. Muscetta, Boccaccio,in La Letteratura Italiana. Storia e testi, Laterza, Bari 1972; V. Branca, voce Boccaccio, Giovanni per il Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, UTET, vol. I 1986 pp. 345-361; R. Mercuri, Genesi della tradizione letteraria italiana in Dante, Petrarca e Boccaccio, in Letteratura italiana. Storia e Geografia, vol. I 1987, pp. 229-455; A. Asor Rosa, Decameron di Giovanni Boccaccio, in Letteratura italiana, Le opere, vol. I, Einaudi, Torino, 1992 pp. 473-591; M. Picone, Il “Decameron” in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, vol. I: Dalle origini alla fine del Quattrocento, a c. di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 625-654.

Recentemente sono stati pubblicati altri importanti studi che inquadrano le opere di Boccaccio secondo diverse prospettive critiche: F. Bruni, Boccaccio. L'invenzione della letteratura mezzana, il Mulino, Bologna 1990; V. Kirkham, The Sign of Reason in Boccaccio's Fiction, Olschki, Firenze 1993; Lessico critico decameroniano a c. di R. Bragantini e P.M. Forni, Bollati Boringhieri, Torino, 1995; F. Tateo, Boccaccio, Laterza, Roma-Bari 1998; L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Salerno Editrice, Roma, 2000; L. Surdich, Boccaccio, Laterza, Roma-Bari, 2001; Introduzione al Decameron, a cura di M. Picone e M. Mesirca, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004.

Per la biografia di Boccaccio si consiglia: V. Branca, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Firenze, Sansoni, 1977.

Per l'edizione delle opere: tutte le opere di Boccaccio sono state pubblicate in edizione critica sotto la direzione di V. Branca per “I Classici Mondadori” (1964-1999). Per il Decameron fondamentale è l'edizione commentata, con introduzione , nota biografica, note bibliografiche sia generali sia delle singole novelle a cura di V. Branca (Torino, Einaudi, 1980), della quale si hanno continue ristampe.

Per la tradizione delle opere di Boccaccio si consiglia la lettura di: V. Branca, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio I. Un primo elenco dei codici e tre studi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958 e V. Branca, Un secondo elenco di manoscritti e studi sul testo del “Decameron” con due appendici, ivi, 1991. Per l'autografo del Decameron: V. Branca-P.G. Ricci, Un autografo del “Decameron” (Codice Hamiltoniano 90), Padova, Università degli Studi, 1962. Connesso alla circolazione dell'autografo e dei manoscritti illustrati del Decameron: Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e immagini fra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1999.

Tra le monografie riguardanti il Decameron e la novellistica si vedano in particolare: E. Auerbach, Frate Alberto, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), Torino, Einaudi, 1956; G. Getto, Vita di forme e forme di vita nel Decameron, Petrini, Torino 1958; V. Branca, Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Sansoni, Firenze, (1970) 1990; M. Baratto, Realtà e stile nel “Decameron”, Neri Pozza, Vicenza 1970; C. Segre, Funzioni, opposizioni e simmetrie nella giornata VII del “Decameron, in Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974; G. Barberi Squarotti, Il potere della parola. Studi sul “Decameron, Federico e Ardia, Napoli 1983; M. Guglielminetti, Boccaccio e la novella italiana in Il tesoro della novella italiana, Mondadori, Milano 1986; Id., La cornice e il furto. Studi sulla novella del '500, Bologna, Zanichelli,1984 e Id. Sulla novella italiana. Genesi e generi, Lecce, Milella, 1990; L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del “Trionfo della Morte”, Roma, Salerno Editrice, 1987; E. Menetti, Il “Decameron “fantastico, Bologna, Clueb 1994; G. Mazzacurati, All'ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a c. di Matteo Palumbo, La Nuova Italia, Firenze 1996 ; R. Bruno Pagnamenta, L'ambiguità come strategia narrativa, Ravenna, Longo, 1999; M. Veglia, “La vita lieta”. Una lettura del “Decameron”, Ravenna, Longo, 2000; Favole parabole istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, a cura di G. Albanese, L. Battaglia Ricci e R. Albanese, Roma, Salerno, 2000; E. Sanguineti, Gli “schemata” del “Decameron”, in Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Milano, Feltrinelli, 2000; Autori e lettori di Boccaccio. Atti del Convegno Internazionale di Certaldo (20-22 settembre 2001) a cura di M.Picone, Firenze, Franco Cesati Editore, 2002; Introduzione al Decameron , a cura di M. Picone e M. Mesirca, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004.

Tra i siti web che riguardano il testo del Decameron oppure che si occupano di un aspetto della novella o che sperimentano nuove forme di analisi e di interpretazione dei testi a partire dall'impiego dei nuovi strumenti informatici applicati alle materie umanistiche, si segnalano:

Decameron web: progetto della Brown University (Providence, U.S.A.), curato da Mike Papio e Massimo Riva (http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/dweb/dweb.shtml)

Decameron ipertestuale: progetto dell'Università di Zurigo, coordinato da Michelangelo Picone (http://www.rose.unizh.ch/static/decameron)

Edizione critica ipertestuale dello Zibaldone Laurenziano, progetto del Dipartimento studi filologici, linguistici e letterari dell'Università di Tor Vergata-Roma, coordinato da Raul Mordenti: http://rmcisadu.let.uniroma1.it/boccaccio

Griseldaonline (www.griseldaonline.it): progetto dell'Università di Bologna, coordinato da Gian Mario Anselmi e da Elisabetta Menetti, con una sezione di informatica umanistica curata da Francesca Tomasi. In questo sito si trovano recensioni dei siti di letteratura più recenti (I siti web per l'informatica umanistica, a cura di Enrica Mancini e Francesca Tomasi): http://www.griseldaonline.it/risorse_on_line/index_informatica.htm

 

Note

1 Così L. Surdich: Esempi di “generi letterari” e loro rimodellizzazione novellistica in Autori e lettori di Boccaccio. Atti del Convegno internazionale di Certaldo (20-22 settembre 2001), a c. di M. Picone, Franco Cesati Editore, Comune di Certaldo, 2002.

2 La datazione delle opere del periodo napoletano è di complessa soluzione. Gli studi condotti da Vittore Branca e da Pier Giorgio Ricci hanno portato a fissare la data della composizione del Filostrato a partire dal 1335, proponendo la successione cronologica: Filostrato, Filocolo e Teseida. La cronologia a lungo accettata conteneva, invece, questa successione: Filocolo (1336-38), Filostrato (1338) e Teseida (1339-40). Così V. Branca (a cura di) Filostrato, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, II, pp. 3-228 e pp. 839-72 e P.G. Ricci, Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Ricciardi, Milano-Napoli, 1985, pp. 38-49; ma per una analisi completa del problema si ricorra a L. Surdich: Boccaccio, cit., pp. 36-37.

3 Si veda su questo: L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno, 2000.

4 V. Branca, La vita e le opere di Giovanni Boccaccio in Giovanni Boccaccio, Decameron a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992, p. 42.

5 Su questo si veda: L. Rossi, Il Decameron e la tradizione narrativa gallo-romanza in Autori e lettori di Boccaccio, cit., pp. 27-50.

6 Sulle letture arturiane di Boccaccio si veda di D. Delcorno Branca: Boccaccio e le storie di re Artù, Bologna, il Mulino, 1991.

7 Sui rapporti tra exemplum e novella si vedano: S. Battaglia, La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli, Liguori, 1965 ora in Capitoli per una storia della novellistica italiana. Dalle origini al Cinquecento., Napoli, Liguori Editore, 1993; V. Branca, Premessa a V. Branca-C. Degani, Studi sugli “exempla” e il 'Decameron', in «Studi sul Boccaccio», XIV 1983-84, pp. 178-207; C. Delcorno,“I figli che saettano il padre” tra exemplum e novella in Miscellanea di studi in onore di V. Branca II. Boccaccio e dintorni, Firenze, Olschki, 1983; C. Cazalé-Bérard, Stratégie du jeu narratif. Le Decameron, une poétique du récit, Nanterre, Université de Paris X-Nanterre, Centre de Recherches de Langue et Littérature Italiennes, 1985; Ead., Les Métamorphoses du récit. Conteurs, prédicateurs et chroniqueurs des XIII et XIV siècle, Nanterre Université de Paris X-Nanterre, Centre de Recherches de Langue et Littérature Italiennes, 1987; C. Delcorno, Modelli agiografici e modelli narrativi tra Cavalca e Boccaccio, in «Lettere Italiane», anno XL, n.4, 1988; Id., Pour une histoire de l'exemplum en Italie,in Les exempla medievaux : nouvelles perspectives, sous la direction de J.Berlioz e M.A. Polo de Beaulieu, Paris, Honoré Champion, pp. 147-166 e p. 158; C.Segre, La novella e i generi letterari in La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola, op. cit., pp. 47-57; C. Delcorno, Exemplum e letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1989; Id., La 'predica' di Tedaldo, in «Studi sul Boccaccio», XXVII, 1999, pp. 55-80; L. Battaglia Ricci, “Una novella per esempio”. Novellistica, omiletica e trattatistica nel primo Trecento, in Favole, parabole, istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di Pisa 26-28 ottobre 1998, a cura di G. Albanese, L. Battaglia Ricci e R. Bessi, Roma, Salerno, 2000, pp. 31-53.

8 Cfr. M. Picone, Il principio del novellare: la prima giornata in Introduzione al Decameron, a c. di M. Picone e M. Mesirca, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004, in particolare p. 64.

9 Oltre alle 126 rime, ve ne sono altre 41 di dubbia attribuzione: cfr. V. Branca, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio. I. Un primo elenco dei codici e tre studi, Edizioni di storia e di letteratura, Roma 1958; Id. (a cura di), G. Boccaccio, Rime, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, V, pp. 3-374; D. De Robertis, A norma di stemma (per il testo delle rime del Boccaccio), in “Studi di Filologia italiana”, XLII, 1984, pp. 109-149.

10 Così F. Tateo, Boccaccio, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 15 e L. Surdich, Boccaccio, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 15-17.

11 Si segue, qui, il ragionamento interpretativo di Michelangelo Picone: L'“Amoroso sangue”: la quarta giornata, in Introduzione al Decameron, a cura di M. Picone e M. Mesirca, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004, p. 116.

12 Ibidem.

13 Così Surdich, Boccaccio, cit., p. 32.

14 R. Venuda, Il “Filocolo” e la “Historia destructionis Troiae” di Guido delle Colonne. Strutture e modelli della narratività boccacciana, Firenze, Firenze Atheneum, 1993.

15 Sulla questione si veda: A. Menichetti, Problemi di metrica, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, vol. III: Le forme del testo, pt. I: Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 383-90.

16 Per la canzone oitanica di Grace Brulé e per le sue interferenze con il Roman è fondamentale: M. Picone, Il genere del Filostrato, in “Linguistica e letteratura, XXIV (2000), pp. 95-112, in partic. p. 101.

17 C. Muscetta, Boccaccio, p. 107.

18 Si vedano in merito i fondamentali studi di M. Picone, tra i quali in particolare: Autore/narratori in Lessico critico decameroniano,a cura di R. Bragantini e P.M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 34-59; Lettura macrotestuale della prima giornata del “Decameron” in “Feconde venner le carte”. Studi in onore di Ottavio Besomi, a c. di T. Crivelli, Bellinzona, Casagrande, 1997, vol. I, pp. 107-22; Il Decamerone come macrotesto: il problema della cornice in Introduzione al Decameron, cit., pp. 9-31. Si vedano inoltre: F. Fido, Architettura, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 13-33; G. Cappello, La “macrotestualità debole” del Decameron, in La dimensione macrotestuale. Dante, Boccaccio, Petrarca, Ravenna, Longo, 1998, pp. 137-181.

19 Sulla cornice di origine orientale si vedano gli studi di M. Picone, Tre tipi di cornice novellistica:modelli orientali e tradizione narrativa medievale, in “Filologia e critica”, XIII (1988), pp. 3-26 e Id. Il Decamerone come macrotesto, cit. pp. 9-33.

20 Sulla veste editoriale che Boccaccio prepara per la sua opera si vedano le considerazioni di L. Battaglia Ricci: Boccaccio, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 144 sgg.

21 Così: L. Rossi, Il paratesto decameroniano: cimento d'armonia e d'invenzione, in Introduzione al Decameron, cit., pp. 35-55.

22 Sul modello offerto dall'opera di Paolo Diacono impiegato nella descrizione: V. Branca, Boccaccio medievale, cit., pp. 381-387. Sui modelli classici di Lucrezio e di Ovidio: L. Rossi, Presenze ovidiane nel “Decameron” in “Studi sul Boccaccio”, XXI (1993), pp. 125-37.

23 Secondo M. Picone la nuova società fondata nel Decameron “si basa sugli intellettuali che, disponendo della parola ornata, se ne servono per intervenire efficacemente sulla realtà storica”: M. Picone, Il principio del novellare: la prima giornata, in Introduzione al Decameron, cit., p. 64. Su questo punto anche Surdich, Boccaccio, cit., p. 109.

24 Sull'aspetto pedagogico e morale del Decameron: L. Battaglia Ricci, “Una novella per esempio”. Novellistica, omiletica e trattatistica nel primo Trecento, in Favole, parabole, istorie, cit., pp. 31-53.

25 A questo proposito si veda l'importante studio di Lucia Battaglia Ricci svolto tra l'iconografia del ciclo pittorico del Trionfo della Morte, conservato nel Camposanto Monumentale a Pisa, e la rappresentazione della cornice decameroniana, tra morte e giardino: L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del “Trionfo della Morte”, Roma, Salerno Editrice, 1987.

26 L'ideale classico del locus amoenus, recuperato in funzione di scenografia narrativa, avrà una fortuna straordinaria nella novellistica successiva. Sulla ripresa della cornice fondamentali: M. Guglielminetti, La cornice e il furto. Studi sulla novella del '500, Bologna, Zanichelli,1984 e Id. Sulla novella italiana. Genesi e generi, Lecce, Milella, 1990. Sulla ripresa della scenografia decameroniana nelle lettere di dedica, paratesto delle novelle di Matteo Bandello: E. Menetti, Enormi e disoneste: le novelle di Matteo Bandello, Roma, Carocci, 2005.

27 G. Barberi Squarotti, Il potere della parola. Studi sul “Decameron”, Federico & Ardia, Napoli, 1983.

28 Per quanto riguarda la dialogicità di ascendenza bachtiniana si veda: C. Muscetta, Boccaccio, cit., p. 304.

29 E. Sanguineti, Gli “schemata” del “Decameron”, in Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 45.

30 Sulla morfologia della novella fondamentale di G. Mazzacurati: All'ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. Palumbo, Firenze, La Nuova Italia, 1996. Sul sistema narrativo decameroniano come “organismo vivente”: C. Muscetta, Boccaccio, cit., p. 304.

31 Per un’analisi narratologica sono di riferimento i già citati studi di M. Picone: M. Picone, Il “Decameron” in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, vol. I: Dalle origini alla fine del Quattrocento, a c. di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 625-654; Id., Autore/narratori in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 34-59; Id., Lettura macrotestuale della prima giornata del “Decameron” in “Feconde venner le carte”, cit., pp. 107-22; Id. Il Decamerone come macrotesto: il problema della cornice in Introduzione al Decameron, cit., pp. 9-31.

32 V. Branca, Boccaccio medievale, cit., pp. 45-133 e pp. 358-377.

33 A. Jolles, Il “Decameron” di Boccaccio in I travestimenti della letteratura. Saggi critici e teorici (1897-1932), a cura di S. Contarini. Premessa di E. Raimondi, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2003, p. 76.

34 Sul complicato problema delle fonti si veda per ora: C. Di Girolamo e Ch. Lee, Fonti, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 142-61.

35 J.L. Borges, Sette notti, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 49.

36 Sul volo di messer Torello e sugli aspetti del fantastico nel Decameron: E. Menetti, Il Decameron fantastico, Bologna, Clueb, 1994. Sulla cornice di origine orientale si vedano i già citati studi di M. Picone, Tre tipi di cornice novellistica: modelli orientali e tradizione narrativa medievale,cit. pp. 3-26 e Id. Il Decamerone come macrotesto, cit. pp. 9-33.

37 A. Asor Rosa, Decameron di Giovanni Boccaccio, in Letteratura italiana, Le opere, vol. I, Einaudi, Torino, 1992 pp. 473-591.

38 Sulla teoria dell' “epopea dei mercanti” si veda V. Branca, Boccaccio medievale, cit., p. 134-164. Sulla rappresentazione dell'ascesa degli intellettuali si ricorra a M. Picone, Il principio del novellare e a L. Surdich, La “varietà delle cose” e le “frondi di quercia” in Introduzione al Decameron, cit. rispettivamente alla pagina 64 e alle pagine 227-265.

39 S. Zatti, Il mercante sulla ruota: la seconda giornata, in Introduzione al Decameron, cit., p. 79.

40 I. Calvino, Leggerezza in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 12 sgg.

41 F. Bausi, Gli spiriti magni. Filigrane aristoteliche e tomistiche nella decima giornata del “Decameron”, in “Studi sul Boccaccio”, XXVII (1999), pp. 205-53. Ma si veda anche F. Forti, Magnanimitade. Studi sul tema dantesco, Bologna, 1977.

42 R. Mercuri, Genesi della tradizione letteraria italiana in Dante, Petrarca e Boccaccio in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. I, L'età medievale, 1987, p. 436).

43 E. Sanguineti, La corte e il labirinto, in Il chierico organico, cit., pp. 62-63.

 

Appendice

La biblioteca del Boccaccio

 

Instancabile raccoglitore e trascrittore di manoscritti, Boccaccio lasciò, al momento della morte, una cospicua biblioteca, comprendente testi di varia natura: classici, opere in volgare, trattati filosofici e scientifici, traduzioni.

Le vicende della biblioteca appartenuta a Boccaccio sono ricostruite in un importante studio di Antonia Mazza (L’inventario della “Parva Libraria” di Santo Spirito e la biblioteca di Boccaccio, in “Italia Medioevale e Umanistica”, IX, 1966, pp. 1-74), dal quale sono desunte le informazioni che seguono.

Nel suo testamento (28 agosto 1374), il certaldese dispose che “omnes suos libros” venissero lasciati in eredità a fra Martino da Signa, e che alla morte di costui fossero trasferiti nella biblioteca del convento agostiniano di Santo Spirito, a Firenze. Nel convento, secondo la volontà del Boccaccio, i libri sarebbero dovuti “perpetuo manere”, custoditi in un apposito armadio (“mitti in quodam armario”) e inventariati (“facere inventarium de dictis libris”).

Degli “omnes libros” lasciati a Martino da Signa non fanno parte, si deve precisare, i libri in volgare, che passarono, dopo una contesa giudiziaria, agli esecutori testamentari di Boccaccio (tra cui Iacopo, il fratello).

Alla morte di fra Martino (1387) i libri, come il testatore aveva disposto, entrarono a far parte della biblioteca di Santo Spirito, in una sezione, la parva libraria, formata da libri di consultazione meno frequente e destinati, eventualmente, al prestito.

Quanto all’inventarium, quello che a noi rimane è piuttosto tardo, del 1451, e include anche libri che sicuramente non appartennero a Boccaccio.

Alla sistemazione fisica dei volumi sembra invece che abbia provveduto Niccolò Niccoli (1365-1437), che – come ricorda Vespasiano da Bisticci (1421-1498) nelle Vite di uomini illustri del secolo XV – fece costruire una libreria nel convento e “facevi mettere i libri del Boccaccio, acciocché non si perdessino”.

E’ possibile seguire la sorte dei libri appartenuti a Boccaccio fino al XVI secolo: al di là di questo termine le notizie si fanno più oscure e frammentarie. Certo è che il nucleo maggiore di quei libri, non sappiamo bene quando e per quale motivo, uscì dal convento e si disperse in varie biblioteche fiorentine.

Grazie all’inventario redatto, come si diceva, nel 1451 (manoscritto Laur. Ashb. 1897, ff. 37v-41r), molti dei codici appartenuti all’autore del Decameron sono stati identificati.

Tra autori classici e medievali, la biblioteca di Boccaccio, la cui consistenza poteva ammontare a una ottantina di codici, rivela una cultura assai varia e composita, che tra gli antichi, ad esempio, spazia da Aristotele (di cui Boccaccio trascrive l’Etica Nicomachea con il commento di san Tommaso: Milano, Biblioteca Ambrosiana, A 204 inf.) ad Apuleio (Laur. 54 32, autografo), da Euripide (Laur. S. Marco 226) a Tacito e Marziale, da Varrone e Cicerone (Laur. 51 10) a Stazio (Laur. 38 6, autografo) e Terenzio (Laur. 38 17, autografo).

 

Ecco il brano del testamento di Boccaccio in cui si dispone dei libri (pubblicato in Corazzini, Le lettere Edite e Inedite di Messer Giovanni Boccaccio, pp. 425):

‘Item reliquit venerabili fratri Martino de Signa, Magistro in sacra theologia, conventus Sancti Spiritus Ordinis heremitarum Sancti Augustini, omnes suos libros, excepto Breviario dicti testatoris, cum ista condictione, quod dictus Magister Martinus possit uti dictis libris, et de eis exhibere copiam cui voluerit, donec vixerit, ad hoc ut ipse teneatur rogare Deum pro anima dicti testatoris, et tempore suae mortis debeat consignare dictos libros conventui fratrum Sancti Spiritus, sine aliqua diminutione, et debeant micti in quodam armario dicti loci et ibidem debeant perpetuo remanere ad hoc ut quilibet de dicto conventu posit legere et studere super dictis libris, et ibi scribi facere modum et formam presentis testamenti et facere inventarium de dictis libris.’

 


mercoledì, 25 lug 2007 Ore. 13.54

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