La biblioteca di Dante
La cultura, i libri letti, gli auctores conosciuti
Ricostruire la biblioteca di Dante è molto più difficile che ricostruire quella di Petrarca. Di quest’ultimo possediamo molti autografi e libri, con annotazioni e postille; del primo non solo non abbiamo una sola sillaba autografa, ma non possiamo indicare con certezza nemmeno un libro che gli sia passato tra le mani.
Martellotti ha addirittura affermato che, in concreto, non sappiamo nemmeno se avesse una sua propria biblioteca.
E’ necessario comunque distinguere tra la possibilità che Dante avesse una sua raccolta, e quanto vasta, di libri, e la certezza che avesse letto e impresso nella memoria un certo numero di autori, che furono basilari per la sua cultura e che ripetutamente citò nelle sue opere.
Petrocchi (in Vita di Dante) ci dice: “La biblioteca dell'Alighieri non fu certo molto ricca. La sua povertà non lo consentiva, e così i continui traslochi da un luogo all'altro.
Tuttavia si può opinare che possedesse:
· una dozzina di auctores, tra classici e cristiani;
· un'epitome (magari una sola) storica e una geografica, o storico-geografica assieme;
· una piccolissima raccolta di poeti provenzali, francesi e italiani;
· forse le Razos de trobar di Ramon (o Raimon) Vidal;
· la Summa di Guido Faba.
Avrà consultato qualche biblioteca? Sarà andato, a Verona, nella Capitolare? Se lo avrà fatto, non avvenne certamente per scoprire classici sepolti nella polvere, per frugare nelle carte di codici dimenticati, ma per verificare luoghi ed espressioni di auctores che già conosceva”.
Degli autori effettivamente conosciuti, ossia della sua “biblioteca di letture”, sono state tentate varie ricognizioni, a partire dagli scrittori e dei testi citati nelle sue opere, sia esplicitamente, che per allusione indiretta.
I critici invitano, in ogni caso, a non sottilizzare nel cercare minuti riferimenti o dotte quanto improbabili citazioni da autori minori e minimi nell’opera dantesca: “gran parte dei riscontri suggeriti o suggeribili sono a testi che Dante, il quale scriveva in esilio, lontano da grandi biblioteche (salvo che a Verona; ma non sembra che egli si sia accorto dei tesori bibliografici colà conservati), certamente o assai probabilmente non conosceva. La discrezione è d’obbligo anche a chi tenga presente quanto formidabile fosse in Dante la sete di letture, e quanto esercitata, in lui e nei suoi contemporanei, l’arte mnemonica [la mnemotecnica], di cui gli attuali sussidi hanno fatto a noi moderni perdere il segreto” (Bosco).
Ci sono auctores di cui il fiorentino fa esplicita menzione nella Divina Commedia, mostrando di conoscerne l’opera, e che inserisce nel poema come personaggi: Virgilio, Brunetto Latini, Guido Guinizzelli, Stazio, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Pier Damiani, Alberto Magno, Bernardo da Chiaravalle.
Fin dall’esordio Dante onora Virgilio (Inf. I, 79 e sgg.), associandolo poi ai quattro grandi poeti ospiti del «nobile castello» del Limbo (Inf. IV, 85-96):
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid'i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com'aquila vola.
La Commedia è, in effetti, tramata di allusioni culturali e di riferimenti, in particolare alla tradizione classica e a quella cristiana.
Non dobbiamo con ciò, tuttavia, credere che le letture dantesche fossero di grande estensione. Soltanto mezzo secolo dopo la sua morte, il commentatore Benvenuto da Imola glossa il passo del Purgatorio (Purg. XXII, vv. 100-02 e 106-08) dove Dante aveva attuato una sorta di "integrazione" al canone degli auctores del Limbo:
dimmi dov'è Terrenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vico».
«Costoro e Persio e io e altri assai»,
rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
che le Muse lattar più ch'altri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco:
spesse fiate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide v'è nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piue
Greci che già di lauro ornar la fronte».
Ebbene, Benvenuto formula un giudizio abbastanza severo sulle limitate letture di Dante: “[Virgilio, come personaggio] ha nominato pochi poeti latini nel IV canto dell’Inferno e qui: e di questi [poeti latini] poteva qui nominare più degnamente Ennio, Lucrezio, Furio… Molti altri furono i poeti greci non meno famosi…”. [1]
La conoscenza dantesca degli autori classici non si rivela in effetti, all'indagine, molto vasta.
Analizzando già solo il canone citato nell’Inferno, sappiamo, ad esempio, che il nome di Omero arrivò a Dante attraverso il filtro delle citazioni degli scrittori latini, soprattutto di Virgilio e Cicerone. Di Orazio conobbe, con certezza, solo l’Ars poetica.
Lesse invece integralmente l’Ovidio delle Metamorfosi e il Lucano della Pharsalia. Di Virgilio conobbe Bucoliche, Georgiche, e soprattutto, a menadito, forse a memoria ("ben lo sai tu che la sai tutta quanta", Inf. XX, 114) l’Eneide.
Ovidio, Lucano e Virgilio sono i testi classici basilari dello scrittoio di Dante.
Buona conoscenza ha di Aristotele (naturalmente solo dell’Aristotele noto alla sua epoca, e attraverso le traduzioni latine e la mediazione dei tomisti), di Cicerone (Dante stesso ci racconta nel Convivio l’importanza per lui della lettura del De amicitia; per il resto, riporta sentenze tratte dal De finibus, De officiis, Paradoxa, De senectute), del Seneca “morale”. Conobbe inoltre Stazio (solo Tebaide e Achilleide, non le Silvae) e i poeti satirici Persio e Giovenale.
Di Averroè e dei filosofi arabi conosce quanto riportato dai commenti ad Aristotele di Alberto Magno.
Tra gli autori della tarda antichità, importantissimi per la sua formazione sono stati Boezio (De consolatione philosophiae), e Orosio (Historiae adversus paganos).
Dante ricorre molto spesso all’autorità di Livio nelle sue opere, ma è probabile che lo conoscesse solo per il tramite di antologie, oltre che dall’Epitome di Floro (autore che D. conosce bene), un’opera che nel medioevo era considerata un compendio di Livio e veniva spesso scambiata col testo originale delle Deche liviane, allora poco conosciute e diffuse.
E’ fortemente dubbio che conoscesse, e in ogni caso solo indirettamente, le commedie di Terenzio.
Quando si dice “indirettamente” si vuol far riferimento allo strumento più consueto, di maggior diffusione, grazie al quale gli uomini del medioevo conoscevano e leggevano i classici, ossia i “florilegi”, latini o volgari; gli scritti letterari degli antichi venivano infatti molto spesso fruiti non dai testi originali, ma da raccolte di singole frasi, estrapolate dall’opera originale, i cosiddetti florilegia.
In queste raccolte il pensiero dell’antichità veniva trasmesso per lacerti, come in un mosaico di citazioni, di sentenze o, appunto, di “fiori” (flores).
Che Dante, in merito alla singola citazione, al singolo auctor, attingesse al testo originale o a raccolte di sentenze, sono vexatae quaestiones; in generale, comunque, vi è certezza che abbia avuto sott’occhio vari florilegia, e che li abbia utilizzati con frequenza, traendone molte delle innumerevoli citazioni autorevoli che costellano le sue opere. [2]
Dante conobbe, come già detto, i teologi menzionati nel Paradiso: san Tommaso (tomistici sono i fondamenti di quasi tutte le sue conoscenze filosofiche) e Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Pier Damiani e Bernardo di Chiaravalle.
Dante si dimostra ben informato sulla poesia volgare, occitanica e italiana, che lo ha preceduto: nel De vulgari eloquentia cita e commenta versi di poeti provenzali (cinque tra questi - Giraut de Bornelh, Bertran de Born, Arnaut Daniel, Folchetto di Marsiglia e l’italiano Sordello - torneranno come personaggi nella Commedia); siciliani (Iacopo da Lentini, ma anche il Contrasto di Cielo d’Alcamo); toscani (Bonagiunta Orbicciani, Guittone) e, naturalmente, stilnovisti, a partire da Guido Guinizzelli.
Un riferimento imprescindibile sono per Dante le Sacre Scritture, nella Vulgata latina di Girolamo: certi libri della Bibbia furono memorizzati dal nostro in modo capillare, tanto da diventare elementi di fondo del suo immaginario: dal Cantico dei Cantici ai Salmi, dai Vangeli all’Apocalisse, spesso con i relativi commenti.
Approfondita è la conoscenza della Patristica latina, ossia di Agostino, Girolamo, Gregorio Magno.
In conclusione, predominano nelle opere dantesche, per intensità di echi e abbondanza di prelievi, Virgilio, Ovidio e la Bibbia.
NOTE
[1] “Et io, dicit Virgilius de se ipso, et altri assai; bene dicit, quia paucos poetas latinos Virgilius nominavit IV capitulo Inferni et hic: unde poterat hic nominare dignius Ennium, Lucretium, Furium, Pacuvium, Actium, Naevium, Catullum, a quibus Virgilius multa accepit, ut clare demonstrat Macrobius […]. Et dicit: et altri piue greci, scilicet, poetae; graeci non minus famosi, sicut Pindarus thebanus, Sophocles, Aeschilus, Alcaeus, omnes tragici, Aristophanes antiquus comicus et plures alii, a quibus omnibus Virgilius multa accepit”. Benevenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, commento a Purg. XXII, vv. 100-02 e 106-08.
[2] Uno dei florilegi più
utilizzati dell’epoca furono gli Ammaestramenti
degli Antichi (circa 1305) di Bartolomeo da San Concordio (1262-1347). Si tratta del volgarizzamento che l'autore stesso curò dei suoi Documenta antiquorum. Ecco
qualcuna delle sentenze di antichi scrittori riportate: Aristotile, nel primo dell’Etica.
“Quelli che si veggiono non sapere, si maravigliano di coloro che dicono alcuna
grande cosa e sopra lo ‘ntendimento loro”. Tullio [Cicerone], nel primo della Vecchia Rettorica.
“Molto si conviene studiare di variare lo dire, però che in ogni cosa
simiglianza è madre di saziamento”. Tullio,
nel terzo della Nuova Rettorica. “La varietà massimamente diletta l’uditore”. Quintiliano, octavo de Oratoria
Institutione. “Ne’ grandi conviti spesso addiviene che, quando dell’ottime cose
siamo saziati, la varietà eziandio delle vili piacevoli ci sia”.