Pier Giorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, lotta per il suo diritto a morire; Enrico Canova, malato di amiotrofia neurogena, immobilizzato a letto con un tubo collegato alla trachea, lotta per il suo diritto a vivere. Sono due nomi che in questi giorni hanno dato voce a tanti drammi vissuti da persone malate e, in qualche modo, hanno riattualizzato il detto latino: mors et vita conflixere mirando: la morte e la vita si combattono a vicenda. Ancora una volta, dunque, le ragioni della vita e della morte si scontrano, confliggono, provocano il cuore e la mente degli uomini e delle donne di tutti i tempi. Queste situazioni drammatiche, portate all’attenzione dell’opinione pubblica dalla risposta del presidente della repubblica alla richiesta di Pier Giorgio Welby di essere lasciato morire, hanno sollevato un dibattito che, per essere utile, deve essere condotto con la forza delle motivazioni e non sotto l’effetto delle emozioni.
A mio parere, per una impostazione corretta del dibattito è necessario anzitutto precisare il significato delle parole che vengono usate. Eutanasia attiva è un intervento che mette fine alla vita di un malato terminale con un’azione volontaria diretta, quale può essere, ad esempio, la somministrazione di un farmaco letale. Essa si distingue dall’eutanasia passiva, che è una scelta di mettere fine alla vita di un malato terminale sospendendo un farmaco o una terapia vitale, come l’alimentazione artificiale. L’eutanasia, poi, non va confusa con l’accanimento terapeutico, che consiste nel prolungamento di cure dolorose che non conducono ad un miglioramento delle condizioni di vita. Il testamento biologico, infine, è un documento scritto per garantire il rispetto della propria volontà in materia di trattamento medico quando non si sarà più in grado di comunicare e decidere. Ora, la posizione della Chiesa su questa delicata materia è molto chiara. La Chiesa non ammette l’eutanasia, perché la vita è sempre un dono di Dio e, come tale, va sempre salvaguardata. Non ammette neppure l’accanimento terapeutico, che è inutile e dannoso. Non è infatti morale prolungare l’agonia con medicinali che non risolvono nulla, ma contribuiscono ad abbassare la vita umana a livello di una macchina. La Chiesa, invece, ammette il ricorso alle cure palliative, che leniscono il dolore ed eliminano le sofferenze inutili. Questa posizione della Chiesa non è vagamente arbitraria, ma si fonda sulla convinzione, ribadita dal teologo Marco Doldi, che “l’ammalato che si sente circondato da presenza amorevole umana e cristiana non chiede di farla finita con la vita. Sarebbe bene domandarsi se la motivazione della insopportabilità del dolore del paziente non sia da leggersi come l’incapacità dei sani di accompagnare la persona attraverso la sofferenza e la malattia, che sono così di scandalo per la società del benessere e dell’edonismo”. A ben guardare, manca una rete di servizi che aiuti le persone e le famiglie. Se le famiglie non restassero sole, ha
osservato il ministro Bindi, e se si praticasse ovunque la terapia del dolore, i drammi si elaborerebbero in modo diverso. Prima di riconoscere a un individuo il diritto di disporre della propria vita bisogna sostenere ogni persona con le sue fragilità e i suoi limiti. E’ interessante notare che sia quelli che rivendicano il diritto a morire che quelli che rivendicano il diritto a
vivere fanno ricorso alla difesa della dignità umana. Ma, se ognuno vuole vivere e morire con dignità, in realtà, non è facile definire che cosa voglia dire vivere degnamente e morire degnamente. Molto spesso, la dignità si riconosce più facilmente quando viene a mancare. A. Glucksmann osserva che il primo diritto di ogni uomo è quello di lottare contro l'inumanità della sua condizione. La battaglia per i diritti dell'uomo non può essere fondata su un'ideale astratto dell'uomo o dell'umanità. Al contrario, tale difesa deve essere motivata solo dall'esperienza di ciò che è inumano. Si può dire, persino, che l'universalità dei diritti dell'uomo stia soprattutto nell'universalità dell'inumano. Ecco perché i diritti non devono servire alla costruzione di un qualunque paradiso in terra, ma solo a combattere, per quanto possibile, l'inferno che ci
troviamo di fronte. Qualora, tuttavia, si parta dall'esperienza umana comune, si possono per lo meno individuare alcune componenti con le quali si può descrivere, se non proprio definire, la realtà della dignità. Queste componenti, secondo R. Mancini, sono: la dignità umana è intrinseca in ogni uomo e non è posta in essere dalla volontà di qualcuno; essa non coincide con il semplice fatto di esistere, ma con una plusvalenza di senso che trascende la stessa esistenza dell'uomo; essa è fondante delle antropologie e delle culture, perché è sempre alla loro base, e, quindi, non è fondata da esse; in quanto tale, essa è incondizionata, irrevocabile ed il
suo riconoscimento non può essere negato a nessuno, neppure al "nemico"; la dignità costituisce la fonte della responsabilità di ognuno per sé e per gli atri; poiché, infine, essa non appartiene, come realtà di valore, solo al singolo, ma è il legame stesso tra gli esseri umani, è un valore transculturale e universale. La fondazione teologica della dignità dell'uomo e dei diritti umani non è, in ultima analisi, una semplice sovrastruttura apposta ai moderni diritti umani generalmente riconosciuti. Essa non può limitarsi a ripetere con parole teologiche solenni ciò che altri hanno conquistato combattendo in duri scontri, e che a loro appare chiaro anche senza un tale rivestimento teologico. La fondazione teologica è piuttosto un aiuto
originario e originale, per una comprensione autentica della dignità umana e dei diritti dell'uomo, che ci permette non solo di decifrarne il vero significato, ma anche di difendere l'una e gli altri da una loro possibile strumentalizzazione ideologica. La Chiesa risana ed eleva la dignità umana, non limitandosi solamente a chiedere che la dignità inalienabile
di ogni uomo sia giuridicamente garantita, ma anche che sia concretamente rispettata e che non venga mai messa a libera disposizione della società neppure nei casi conflittuali. Inoltre, la Chiesa promuove e difende la dignità di ogni persona, sostenendo che il non poter disporre della vita umana neppure in situazioni difficili dipende dalla convinzione di sentirsi sempre sorretti dalla potenza infinita di Dio, amante della vita e non della morte. Per la fede cristiana, infine, la verità definitiva dell'uomo è manifesta solo nella verità di Dio su di lui; l'uomo non è in grado di procurarsela da solo, ma la può percepire unicamente nella fede, facendo propria la verità di Dio.
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