Il boiaro, capitolo II
Capitolo II
"Ancora pochi passi", si disse fra sé con un filo di voce per premiare le proprie fatiche, ma ebbe appena imboccato il suo vicolo che scorse alcuni uomini armati appartenenti alla milizia rivoluzionaria proprio sull’uscio del suo rifugio. Alla vista di quegli uomini si spaventò tanto che lo stomaco gli si gelò in un attimo. Si tirò subito indietro inciampando nella slitta e cadendo a terra con la schiena sullo spigolo del marciapiede. Per sua fortuna la casacca gli attutì bene la caduta e si procurò solo un leggero dolore alla schiena. Si alzò in fretta. Ebbe un attimo di smarrimento sentendo che tutto il suo corpo tremava: il cuore iniziò a battergli così forte che quasi pareva che volesse uscire fuori dal petto. Cercò di riprendersi, di riacquistare quella calma posseduta sino a qualche minuto prima, e quando si sentì un po’ meglio provò ad affacciarsi furtivamente da dietro al muro per capire se quegli uomini lo avessero scorto, senza rendersi conto che se lo avessero notato se li sarebbe già trovati addosso quando era ancora a terra. I bolscevichi, però, non si erano accorti di nulla e si comportavano come se fossero le uniche persone esistenti al mondo: uno di loro, appoggiato alla porta chiusa del nascondiglio di Ivan, si stava spensieratamente accendendo la pipa, mentre le ombre di altri due miliziani camminavano lungo il vicolo per non congelare. Ivan si ritrasse dopo alcuni secondi che era rimasto lì a guardare, e con i talloni, i polpacci, la schiena e la testa si incollò letteralmente alla parete come se volesse fare un corpo unico con essa. Aveva paura. Iniziò a sudare freddo e non sapeva cosa fare. Doveva pur decidere qualcosa, ma che fare? Doveva forse andare via? Oppure avvicinarsi rischiando la propria vita pur di sapere la sorte di Anastasia? E se sua sorella fosse scappata via, lui avrebbe corso inutilmente un pericolo, anzi si sarebbe fatto catturare quando sua sorella aveva proprio bisogno di lui in un altro luogo, in un altro rifugio della città. Rimase incollato al muro per diversi minuti. Più volte si asciugò il sudore della fronte con la mano avvertendone i calli. In quella notte buia dalle sue tempie corrose dal gelo scendevano copiose le gocce di sudore. Doveva assolutamente trovare una soluzione. Se solo avesse saputo con certezza la fine toccata ad Anastasia avrebbe deciso cosa fare. Se sua sorella fosse stata uccisa non avrebbe esitato ad affrontare i bolscevichi: spinto dalla paura si sarebbe lanciato contro di loro sperando che fosse la prima pallottola a spezzare subito e senza dolore la sua vita, ma se ella fosse stata ancora viva e raminga per la città avrebbe dovuto lasciare la slitta per cercarla e portarla in un posto sicuro. Pensò anche ad una possibile cattura di Anastasia, ma si sforzò mentalmente di cacciare via quest’ipotesi perché allora sarebbe stato troppo difficile scegliere il da farsi. Era nervoso ed impaurito e non gli riusciva di pensare alcunché che potesse aiutarlo ad uscire da una situazione del genere. Intanto iniziava a rendersi conto che non poteva rimanere lì, aspettando che qualcuno, passando, lo notasse e avvertisse le guardie rivoluzionarie. Il pensiero che Anastasia avrebbe avuto bisogno di lui lo assillava.
Doveva sbrigarsi! Solo questo riusciva a dirsi. Non trascorse molto tempo, però, che si sentì stanco: le forze lo abbandonavano iniziando dai piedi, per poi coinvolgere le gambe, le braccia ed il capo. Per allontanare da sé la paura provò a fare un corpo solo con il muro incollandovisi con tutte le proprie forze. Continuava a sudare freddo. Si sentiva smarrito ed incapace di prendere una qualunque decisione. Doveva sbrigarsi! I fiocchi di neve continuavano a cadere dall’alto e le campane dell’orologio municipale scoccarono le tre: solo ora si rese conto che aveva trascorso così circa mezz’ora da quando aveva visto i bolscevichi davanti al suo rifugio. Il tempo trascorreva inesorabilmente: attimi e secondi, pur conservando la loro eternità, si susseguivano velocemente l’uno dietro l’altro in una sfrenata corsa. Ed egli, diceva tra sé e sé, stando in quella sua volontaria immobilità, collaborava con quella arcaica forza maligna che voleva la sua morte perché presto sarebbe stato scoperto e fatto prigioniero dai miliziani. Non ci volle molto tempo che le sue gambe si afflosciarono sotto il peso di un corpo incapace di reagire, facendolo cadere a terra come un sacco di patate. Sentiva freddo; era stanco con una testa che voleva scoppiare per dissolversi poi nel nulla. Si accomodò a terra come meglio poté. Al pensiero di non poter reagire provò un senso di nausea per quella vita che i tempi e gli uomini lo avevano costretto ad accettare: vivere in clandestinità, per essere acciuffato, portato dinanzi ad un tribunale e sentirsi fin dentro le ossa la sentenza di condanna a morte; essere condotto dinanzi ad un muro tra le urla e gli sputi dei popolani; sentire le grida di un giovane disertore fatto capitano che fa aprire il fuoco ad un plotone di avanzi di galera; provare il dolore per il piombo che prepotentemente entra nelle proprie carni. Non doveva essere per niente bello sentire delle pallottole roventi conficcarsi in tutto il proprio corpo. E poi... poi essere libero? E chi o che cosa poteva assicurargli che dopo la morte lo sarebbe stato?
"Se Dio non esiste - si disse tra sé - io morirò ma non sarò libero". Provò una fitta nel cuore e si rese conto di aver pensato solo ora seriamente a Dio e che Dio poteva anche non esistere.
Provò un senso di nausea per quella vita che i tempi e gli uomini lo avevano costretto ad accettare: viveva da clandestino nella propria terra con la paura che presto sarebbe stato scoperto; doveva svolgere un’attività infame che se da un lato gli fruttava parecchio danaro, dall’altro lo esponeva a mille pericoli e lo costringeva a confrontarsi con uomini che considerava suoi inferiori. I contadini che ora facevano mille storie per poche patate, lui un tempo li avrebbe presi a calci fino a fargli sputare l’anima: adesso, invece, doveva scendere a patti con loro, escogitare astuzie per imbrogliare sul peso e improvvisare espedienti per pagarli di meno. Continuava a nevicare. Si tolse il berretto. Chinò il capo verso il petto e dopo aver immerso le mani nella sua folta capigliatura pensò che doveva lavarsi: spesso sudava ed era una grossa fatica trascinare una slitta carica per tutta la giornata. Era stanco. Ora sentiva che il mondo non si sarebbe perso nulla se Ivan, un povero boiaro della sterminata Russia, non fosse mai nato. Lo ripugnava ciò che lo circondava: che valore avevano quei palazzi, quelle lampade accese, quei bolscevichi che stavano davanti al suo rifugio, quelle povere cose che stavano sistemate sulla sua slitta? Che senso aveva per un povero vecchio additato come zarista starsene impaurito in fondo ad una cantina o in cima ad una soffitta in attesa di essere chiamato a pagare per le sue colpe terrene?
"Vogliono anche la mia vita - pensò Ivan - ma cosa se ne faranno di me dopo che avranno premuto i grilletti delle loro armi? Non si troveranno davanti ad una carcassa destinata a putrefarsi, e che dovranno seppellire nel più breve tempo possibile? Vogliono forse costruire il futuro di chi nascerà sui morti di oggi?".
Gli sembrava che tutto si fosse mosso contro di lui per annientarlo, farlo scomparire per sempre come se non fosse mai nato. Odiava questa nuova realtà. Aveva fatto molto per costruire il suo mondo anche se buona parte delle sue proprietà le aveva ereditate: un tempo possedeva servi e bestie, terre e danaro. Le ricchezze dovevano garantirgli la felicità su questa terra, mentre la religione lo avrebbe dovuto confortare nell’ora della morte promettendogli un altro mondo. Invece ora tutto era andato perduto. I bolscevichi gli avevano tolto le proprietà e la religione.
Lui, Ivan Vasil’evic Nikonov, non aveva preso parte alla costruzione di quel mondo dorato che lo aveva generato, ed anche adesso non aveva mosso un dito per instaurare o fronteggiare questa nuova realtà: la Rivoluzione.
"Perché - si chiese Ivan - mi è stato tolto ciò che un tempo mi fu dato? Sono forse stato un cattivo amministratore? Il mondo segue il proprio corso senza nemmeno degnarsi o porsi il problema di consultarci: è proprio vero che noi uomini non siamo padroni nemmeno di decidere sui nostri capelli e tanto meno sulla nostra vita?".
Al pensiero che uomini diversi da lui potessero ucciderlo per impadronirsi di quei pochi beni che ora teneva sulla slitta, lo fece sentire ancora più impotente. Nei confronti dei suoi nemici non poteva fare altro che maledirli con ogni sorta di frase ingiuriosa: la sua speranza, ora, era che a forza di imprecare si muovesse qualche misteriosa forza naturale capace di colpire sin dentro le midolla i suoi nemici e quel mondo che lo circondava e che lo avvolgeva col proposito di stritolarlo.
La neve continuava a cadere. Ivan alzò lo sguardo verso quei deboli fiocchi di neve candida e si chiese se non fosse quello il modo che il cielo aveva per benedire i bolscevichi.
"Tutto è contro di me". Si sentiva impotente e dalla sua debolezza non scaturiva che odio. Per un po’ non fece altro che bestemmiare. Era nervoso ed il sudore non accennava a fermarsi, mentre il respiro diventava più affannoso. Sentiva il gelo rodergli le ossa.
"Il freddo non è amico mio - pensò Ivan - e tutti sono contro di me". La nebbia dell’avvilimento gli offuscò la mente e decise di uccidersi. Ora come ora preferiva togliersi lui stesso la vita: non gli andava proprio giù il pensiero che un giorno un bolscevico avrebbe potuto gloriarsi di aver ucciso Ivan Vasil’evic Nikonov, un uomo nato boiaro e morto come un miserabile straccione. Diventò rabbioso: dalla tasca della casacca estrasse un coltello, ma le sue dita, arrossate per il freddo e tremanti per la morte che si stava avvicinando, trovarono subito difficoltà a far uscire la lama dal manico. Ivan ritornò per un attimo a posare lo sguardo sull’esile fiammella di un lampione. "Anche tu - le disse Ivan - sei mia nemica perché con la tua piccola luce puoi permettere ai bolscevichi di catturarmi".
Si convinse che uccidersi era l’unica cosa che gli restava da fare, e in quei momenti che la lama dal filo tagliente non voleva uscire, maledisse anche lei che stava collaborando con i suoi nemici affinché lui soffrisse il più possibile su questa terra. La lama uscì. Era davvero tagliente. Ora era pronto per morire? Dai suoi occhi vivi sentì uscire una lacrima. Era proprio una lacrima che lui scacciò rapidamente via pulendosi con il bordo sdrucito della manica. Guardò la lama. La maledisse. Poi con decisione impugnò l’arma con entrambe le mani per accostarne la punta al proprio ventre. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa al muro. Era pronto. Prima di suicidarsi credette che valeva la pena pensare a qualcuno o a qualcosa.
"Non ho bisogno di nessun conforto: ho deciso di uccidermi. Voglio però offrire il mio spirito e questo sacrificio a qualcuno".
Pensò a Dio, ma si rese conto che il Creatore non lo avrebbe accettato.
"Dio? Ma i bolscevichi dicono che non esiste e che dopo la morte non c’è altro che il nulla. Soltanto il nulla. Maledetti bolscevichi: mi avete tolto anche Dio. Non vi siete accontentati di privarmi solo della mia proprietà e dei miei affetti. Adesso mi costringete a togliermi anche la vita per farmi cadere nel nulla. I bolscevichi hanno sconfitto gli uomini con le armi e Dio e la religione con l’ideologia. Al mondo resteranno solo loro; loro con le nostre proprietà e i nostri corpi senza vita. Sono nato per morire".
Se Dio, come dicono i bolscevichi, non esiste, a chi avrebbe potuto offrire allora questo suo sacrificio? Non riusciva a darsi una risposta, ma ora che era pronto a togliersi la vita non c’era nemmeno la necessità di avere fretta. "Appena scorgerò un miliziano affonderò la lama nelle mie viscere".
Senza che se ne rendesse conto aveva le mascelle serrate come se stessero in attesa di subire un urto violento con un qualcosa che di lì a poco si sarebbe scagliato con forza contro di loro; un qualcosa che lui non conosceva, ma che doveva essere terribile. Ivan pensò ad un vortice che lo avrebbe di lì a poco attirato velocemente dentro di sé, nel suo vuoto, dove tutto va a perdersi e dove non esiste la memoria. Il respiro, intenso e animalesco, faceva ora ritrarre ora uscire il ventre che tremava e si contorceva internamente per allontanare la punta della lama. A tratti gli occhi si aprivano e si chiudevano nel disperato tentativo di intravedere una possibile via d’uscita: davanti a loro però non c’era altro che il buio ed il gelo. Ivan aveva l’impressione che ogni angolo circostante nascondesse un pericolo. Sentiva tutta la stanchezza del corpo e dei muscoli che aspettavano con ansia il momento in cui sarebbe sopraggiunta la morte, la fine, la loro fine. Avvertiva una strana debolezza nei polsi nonostante nelle loro vene il sangue continuasse a fluire, a pulsare, a combattere per la vita. Voleva concentrarsi e pensare che bastava solo un attimo per togliersi la vita. "Andrò incontro al nulla. Non importa. Del resto anche qui non ho che il nulla. Un semplice movimento delle braccia, anche minimo, e morirò. Lentamente, ma morirò".
E mentre cercava la forza per compiere questo gesto, aspettava pure che si aprisse uno spiraglio davanti a lui, capace di fargli rimettere il coltello in tasca. "Finché c’è vita c’è speranza", si ripeté più volte senza accorgersi che stava lacrimando. Ma cosa poteva capitare in questo momento per impedirgli di ammazzarsi? "Nulla", si disse tra sé. Si rese conto che in fondo non era capace di uccidersi, ma neanche tanto coraggioso da poter continuare a vivere. Era solo consapevole che questi pensieri gli stavano torturando l’anima. La sua vigliaccheria e la sua voglia di vivere gli concessero allora di abbandonarsi al sonno, e dalle sue mani il coltello scivolò a terra.
Quella notte, accovacciato ai piedi del marciapiede, non poté dormire come avrebbe voluto e delle immagini offuscate dalla paura gli fecero rivivere i tempi andati quando era un boiaro, un padrone.
giovedì, 18 apr 2013 Ore. 16.52
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