Carlo Silvano


articoli vari

Il boiaro, capitolo III

Capitolo III


La fattoria di Ivan Vasil’evic Nikonov distava poco più di cinquanta chilometri dalla città, e circa sei dal villaggio; era costituito dalla casa padronale che si presentava come un edificio a tre piani: il primo era in muratura, gli altri due in legno. La casa fu costruita dal padre di Ivan quando lui aveva solo qualche anno. Davanti c’era un largo spiazzo di terra battuta ombrata da sei querce che il tempo aveva dimenticato: sui loro tronchi c’erano le impronte lasciate dai freddi invernali. Ai lati di quest’aia trovavano posto gli ovili, i porcili, le stalle con i fienili e due edifici - anch’essi in parte in muratura, in parte in legno - che ospitavano una decina di famiglie di contadini che lavoravano la terra del loro padrone, Ivan Vasil’evic Nikonov.

Dietro la casa padronale c’era un bosco di betulle delimitato da un muro alto almeno due metri. Al padrone piaceva trascorrervi molte ore, e per questo lo zoppo Glinka si preoccupava di tenerlo sempre in ordine, pulendo i viali dalle foglie, tagliando i rami secchi delle betulle e compiendo tutti quei piccoli lavori necessari al mantenimento del decoro del giardino. Glinka faceva bene attenzione che a qualche ragazzino un po’ curioso non venisse l’idea di valicarne il muro: la frusta dei padroni - prima quella del padre e poi quella di suo figlio Ivan - faceva sempre male, e solitamente le prime frustate che un contadino ricordava erano quelle prese quando da bambino aveva tentato di visitare il giardino.

In un angolo dell’aia c’era una cisterna profonda poco più di dieci metri da dove si attingeva l’acqua per il padrone, per le bestie e per le famiglie dei contadini. La vita quotidiana di questa piccola comunità rurale era dunque l’aia, ed era proprio qui che ogni sera, con il bello o cattivo tempo, Ivan convocava i contadini e ad ognuno assegnava un lavoro per il giorno dopo. Ed era anche qui che nel mese di ottobre venivano sgozzati e macellati i maiali allevati nella fattoria, e che il commerciante Boris Viktorovic Kaširin provvedeva ad acquistare per smerciarli in città.

L’uccisione dei maiali avveniva come se fosse un arcaico rito annuale, ed era d’obbligo la partecipazione di tutta la comunità. Nei primi giorni di ottobre si provvedeva ad accatastare una gran quantità di legna nelle adiacenze della cisterna e, quando tutto era pronto, si accendevano due fuochi in due punti dell’aia abbastanza distanti tra loro. Veniva fatta bollire una gran quantità d’acqua per lavare le pelli e le viscere degli animali appena uccisi. Qualche giorno prima del macello si incaricavano due giovanotti di affilare i coltelli ed altre armi bianche necessarie per l’occasione, e i due si davano il cambio nel far girare una pesante mola bianca.

Quando l’acqua bolliva e le lame luccicavano sotto il sole di ottobre, con un cenno deciso della mano, Ivan indicava ad un gruppetto di uomini gli animali custoditi nel recinto che fino ad allora avevano ignorato la sorte che li attendeva. Era allora che i contadini, armati di funi, entravano nei porcili per agguantare un animale: non si faceva alcuna distinzione tra un animale e l’altro. Erano tutti maiali. Entro quella giornata tutti i porci sarebbero stati uccisi e con le loro carni il padrone si sarebbe arricchito. Uno per volta gli animali venivano legati e trascinati nell’aia, e mentre alcuni uomini lo trattenevano, uno di essi, Igor’, servendosi di un coltello dalla larga lama, provvedeva a squarciargli la gola e a far colare tutto il sangue in un recipiente. Il sangue veniva poi affidato alle cure di una donna che lo mescolava di continuo affinché non coagulasse. L’animale ucciso veniva poi issato su un robusto ramo di quercia, ed un uomo aiutato da un ragazzo provvedeva a macellarlo. Intanto il gruppetto di uomini ritornava nel porcile per catturare un altro animale, e poi un altro, e ancora un altro, fino a tarda sera. Le donne, chiamate a gran voce dagli uomini, si davano da fare andando avanti e indietro per tutto lo spiazzo portando acqua bollente lì dove occorreva. Al grido del maiale di turno che veniva portato al macello si univa quello dei compagni rinchiusi nel recinto e che solo ora presagivano la loro fine. Anche i cani, eccitati dalle urla e dall’odore del sangue sparso nell’aria, prendevano parte a questo macabro rito con il loro incessante abbaiare. Il padrone girava per l’aia, assicurandosi personalmente che ogni servo eseguisse il lavoro affidatogli con diligenza e senza che nulla andasse sprecato o perso. Con modi bruschi e irriguardosi Ivan mandava le donne a prendere l’acqua, e infieriva contro i due giovanotti che avevano affilato i coltelli perché ce n’era sempre qualcuno che non tagliava bene. Le lame affilate male venivano nuovamente passate alla mola ed Ivan in persona si assicurava che la pietra bianca fosse stata bagnata a dovere. Il padrone faceva anche bene attenzione alle viscere appena estratte dagli animali per verificare che fossero sani, ed in ogni momento e per tutti aveva un ordine da impartire, che uomini, donne e ragazzini prontamente eseguivano. Le carni macellate venivano riposte con cura in un deposito in attesa del giorno dopo, quando sarebbe arrivato Boris Viktorovic Kaširin con i suoi carri. Intanto il fumo dei fuochi, portando con sé un acre odore unito a grida e a sangue, si innalzava verso il cielo, come un’offerta sacrificale a primitivi dei. Man mano che la giornata trascorreva, i grugniti dei porci andavano scemando per la stanchezza, ma anche perché diventavano sempre meno e si rassegnavano alla loro sorte.

A sera anche gli uomini erano stanchi: avevano completato la loro opera e si recavano a dormire. Nell’aia arrivavano le prime ombre della notte che avvolgevano le querce e le case. Con le tenebre solo qualche cane si aggirava per lo spiazzo alla ricerca di qualcosa da mangiare, ma non vi trovava nulla. Il padrone, nella quiete della sua camera, restava sveglio fino a tarda notte pensando ai guadagni che avrebbe ricavato col lavoro di quella giornata.

Ma l'aia non registrava una frenetica attività solo quando bisognava macellare i maiali: in occasione della mietitura, infatti, il cortile diventava il punto di raccolta del grano e del fieno.

Prima di andare a lavorare nei campi i contadini si riunivano nell'aia, in modo che il padrone formasse delle squadre assegnando ad ognuna di esse un campo. Poi, al tramonto, quando gli uomini ritornavano nel cortile sudati, carichi dei covoni e con gli arnesi logorati dal lavoro, ascoltavano in silenzio le imprecazioni del padrone che esigeva più lavoro ed affidava nuovi terreni da mietere. Nel tardo pomeriggio, prima che facesse buio, il padrone faceva solitamente sistemare un tavolino con una sedia nell’aia, e servendosi di un pezzo di carta calcolava il valore di ciò che era stato raccolto. Anche se il suo cuore sprizzava di gioia per i guadagni che si prospettavano, davanti ai volti stanchi dei suoi contadini non si mostrava mai soddisfatto.

E così, il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, i contadini si trovavano già nei campi, mentre le donne si raggruppavano nell’aia per lavorare le spighe. Ivan, seguito dal suo fedele fattore Andrej Svjatoslavov, si recava spesso nei campi per controllare di persona la mietitura. Stando a cavallo sorvegliava i servi, e se doveva richiamare un contadino che mostrava qualche segno di stanchezza, non ci pensava due volte ad insultarlo con la sua potente voce ed il vigore dei suoi trentacinque anni, alzandosi spavaldamente sulle staffe della sella e brandendo minacciosamente un frustino.

Quando la mietitura terminava, arrivava Boris Viktorovic Kaširin. Ivan lo faceva accomodare nello studio situato al primo piano della casa padronale, e i due si mettevano a discutere sul prezzo e sul peso. All’inizio sembrava che i due non sarebbero riusciti mai a trovare un accordo e spesso fuori, sull’aia, i contadini ascoltavano ogni genere di imprecazioni. Alla fine, come di consueto, veniva sempre trovata una soluzione che soddisfacesse entrambi e così i contadini ricevevano l’ordine di caricare i carri. Boris Viktorovic Kaširin si portava via il frutto del loro lavoro. Il grano, infatti, veniva portato in città, dove l’acquirente possedeva un mulino.

Nelle serate invernali - dopo aver accudito gli animali - i contadini erano soliti riunirsi [continua...]

Categoria: Editoria
sabato, 20 apr 2013 Ore. 14.45
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