Premessa
Questo scritto tratta del tempo e dello spazio. Si accoda quindi a miliardi di riflessioni, scritte e non, fatte da una percentuale consistente dell’intera umanità nelle ultime migliaia o centinaia di migliaia di anni.
Le pere servono principalmente a me stesso. A ricordarmi quanto è piccola la goccia nell’oceano. Ed a non prendermi troppo sul serio.
Ontologia
La descrizione dello spazio e del tempo ha molteplici forme. In generale, è già difficile scegliere l'argomento di discussione in quanto si riflette talvolta sullo spazio e sul tempo separatamente, talvolta sullo spazio-tempo relativistico inteso come unico groviglio inseparabile delle due entità.
Le relatività di Einstein, sia la speciale che la generale, producono infatti, come noto, equazioni miste in cui le variabili dipendono una dall'altra, in un certo senso, come se fossero la stessa cosa. D'altro canto, la relatività stessa contiene meccanismi che preservano l'unicità e la peculiarità distinte delle due entità. In particolare, il segno meno del tensore fondamentale in relatività ristretta garantisce uno status privilegiato alla coordinata tempo e in relatività generale dove tale tensore assume forme più libere, teoremi quali la preservazione del determinante continuano a garantire l'esistenza di una coordinata temporale unica e riconoscibile. L'esistenza di una velocità massima, in termini più generici, impedisce una rotazione di due sistemi di riferimento tale da rendere il tempo di uno sovrapposto ad una coordinata spazio dell'altro. Come è noto, questi meccanismi diventano più labili in situazioni estreme quali il passaggio attraverso la linea di orizzonte dal punto di vista di un osservatore che si mantenga all'esterno dell'orizzonte stesso.
Dal punto di vista ontologico le opinioni sullo spazio e sul tempo assumono le forme più disparate. Queste forme sono tradizionalmente raggruppate in due punti di vista molto ampi, uno che tratta lo spazio e il tempo come entità reali ed esistenti, contenitori immanenti delle cose, ed uno che tende a negarne l'autonomia ontologica trattandoli tipicamente come relazioni tra le cose. I due punti di vista sono accomunati dalla necessità che altro, le cose, abbiano in ogni caso peso ontologico, siano esse i contenuti dello spazio-tempo contenitore, siano esse i soggetti sorgenti delle relazioni spazio-temporali.
La natura di queste entità altre è diversa in vari ambiti, saranno fermioni, bosoni e campi in ambito di fisica nucleare, sarà il tensore materia energia in relatività generale, saranno entità più astratte quali l'io pensante cartesiano in ambito più puramente filosofico.
Meno percorso, e oggetto di questa disamina, è un punto di vista più radicalmente immanente in cui lo spazio e il tempo sono entità ontologicamente rilevanti e indipendenti dalle cose, tanto da poter ipotizzare una inversione di punto di vista e supporre le cose come oggetti emergenti o relazioni dello spazio e del tempo in sé.
La necessità di collocare cose all’interno dello spazio-tempo nasce naturalmente dall'esperienza diretta di quello stesso io che si percepisce dentro il contenitore spaziotemporale e in relazione tramite questo alle altre entità esistenti. Formalmente questo punto di vista raggiunge il suo apice con la meccanica Newtoniana in cui il contenitore viene definito in senso matematicamente preciso come struttura metrica e vettoriale perfettamente piana, infinita e isotropa.
Lo spazio-tempo di Newton diventa paradigma grazie alla sua eleganza, semplicità e potenza. E in tale approccio l'esistenza di ciò che è contenuto diventa necessità filosofica in quanto lo spazio e il tempo in sé, proprio in virtù della propria eleganza e della perfetta isotropia non sono in grado di esporre altre proprietà locali rilevanti interpretabili in qualche senso come cose.
Le cose cambiano lentamente tra la fine del XVIII secolo e l'avvento della relatività generale. Gli studi di Gauss e poi di Riemann e di Ricci, Christoffel e molti altri permettono l'evolvere della cosiddetta geometria differenziale, scienza che scardina l'immagine cristallina dello spazio di Newton facendo man mano imporre l'ipotesi che lo spazio possa avere proprietà locali dipendenti solo dalla propria metrica e senza alcuna dipendenza da altro.
Ciò che in prima istanza è uno studio di superfici curve immerse in uno spazio Euclideo senza asperità, si affranca nei decenni fino a diventare studio della curvatura intrinseca in sé e man mano si perde la necessità del supporto Euclideo esterno.
Quando Einstein nel 1915 userà quella matematica per modellare le proprie equazioni non ci sarà più alcun riferimento ad eventuali dimensioni superiori in cui quello spazio-tempo risulta curvo e tale punto di vista diventerà giorno dopo giorno, grazie ai successi di quella teoria, sempre più radicato, condiviso ed accettato.
L'immagine di spazio e di tempo che abbiamo oggi è quella di un oggetto ricco puntualmente dei dieci valori indipendenti del tensore metrico e ricco globalmente delle proprietà topologiche complessive.
In questa processo il peso ontologico dello spazio e il tempo aumenta in modo preponderante. Quello spazio e quel tempo esistono in sé.
Particolarmente notevole è il fatto che anche azzerando il tensore materia-energia nelle equazioni di campo, cioè in termini grezzi, rimuovendo le cose, si ottiene un oggetto ricco, dinamico, pulsante, formalmente cioè si ottengono delle soluzioni non banali.
Sembra del tutto naturale immaginare un passaggio successivo in cui ci affranchi dal concetto stesso di materia e di energia. L'equazione di campo può essere infatti letta nei termini così efficaci di John Wheeler: "La materia dice allo spazio come curvarsi, lo spazio dice alla materia come muoversi". Ma filosoficamente può leggersi altrettanto bene come "Ciò che chiamiamo materia è la forma geometrica assunta dallo spazio-tempo". Ontologicamente le due affermazioni sono diverse, per la prima la materia è un'entità, per la seconda è un fenomeno emergente.
Per varie ragioni questo punto di vista, per alcuni aspetti davvero naturale, fatica ad imporsi. In qualche modo la descrizione del mondo continua a basarsi sul collocare cose dentro lo spazio-tempo. In ultima analisi, forse, una teoria che dia peso ontologico unicamente allo spazio e al tempo comporterebbe il dissolversi dell'io e questo, forse, è psicologicamente difficile da accettare.
Finitismo
Molti fisici e filosofi sono attratti da un punto di vista finito sul mondo.
Tale necessità è in parte del tutto istintiva, in parte dettata dai progressi della fisica del novecento. La relatività e la geometria differenziale hanno per la prima volta permesso di disquisire in termini ragionevoli l'ipotesi di uno spazio-tempo topologicamente chiuso e quindi dotato di un volume finito. Sul fronte quantistico la rottura della continuità introdotta dai lavori di Planck, Einstein, Bohr è la base stessa di partenza della costruzione dell'intero apparato concettuale.
Ma ben prima di questi sviluppi molti pensatori hanno dimostrato le proprie difficoltà nei confronti del continuo, si pensi per esempio al motto di Kroneker: "Dio fece i numeri interi; tutto il resto è opera dell'uomo".
Nella migliore delle ipotesi il continuo tende ad apparire quantomeno superfluo, e la formalizzazione del concetto operata da Dedekind è indubbiamente solida ma non risolve le difficoltà profonde che ne nascono.
La cardinalità del continuo risulta infinitamente più ricca di quella numerabile ma di una ricchezza così trascendente che la sua applicabilità è praticamente ridotta alle funzioni sufficientemente morbide da poter essere praticamente manipolate.
Nelle scienze di fatto l'unica porzione utilizzabile della ricchezza del continuo è quella approssimabile con insiemi finiti. Qualunque funzione che non sia di questo tipo viene considerata degenere. Ma allora, che valore profondo attribuire ai numeri reali?
Sul fronte più astratto il teorema di Cohen sull'indimostrabilità dell'ipotesi del continuo colloca in un certo senso questa struttura fuori dall'ambito proprio dell'aritmetica. È possibile immaginare la frustrazione che avrebbe provato Cantor di fronte a un tale risultato.
Tutte queste ragioni assieme e probabilmente molte altre portano a chiedersi se non possa esistere una teoria finita del mondo.
Va considerato, come vero paradosso, che mentre le teorie basate sulla continuità sono di fatto numericamente trattate con approssimazioni finite, metodi di tipo Montecarlo, discretizzazione di tipo lattice e così via, non c'è una vera chiarezza sul contrario. Non sappiamo cioè se un approccio finito possa introdurre novità filosofiche e concettuali che non emergono in un ambito continuo. Paradossalmente i sistemi finiti, così poveri di ricchezza al confronto, potrebbero essere portatori di novità concettuali inaccessibili ai sistemi continui.
Su questo fronte davvero interessante sarebbe studiare cosa emerge di nuovo dai sistemi finiti anziché forzarli ad essere mera approssimazione dei sistemi continui.
Per essere più espliciti, si consideri ad esempio il rapporto tra le teorie basate su lattice e teorie come la Loop Quantum Gravity. Entrambe tentano una strada verso la discretizzazione dello spazio (e dello spazio-tempo nel secondo caso). In un caso tuttavia il processo appare come pura ricerca di una versione finita della controparte continua. Non sono attesi né ricercati risultati innovativi rispetto alla teoria padre. In Loop Quantum Gravity al contrario la discretizzazione diventa vero oggetto di studio, indipendente da un'ipotesi continua sovrastante e si lascia che la teoria che ne deriva faccia il suo corso vedendo emergere nuove strutture e accettandole per quello che sono.
La fisica delle pere
Cercando di dare forma concreta ai due paragrafi precedenti, è possibile costruire, come in un gioco filosofico, un'immagine di spazio-tempo su cui ragionare, del tutto banale: “La realtà è una collezione finita di punti tra cui sono instaurate relazioni metriche e temporali, a loro volta finite.”
Allo scopo di ridurre le variabili in gioco al minimo possibile e di ridurre la complessità ai minimi termini, senza sentire la necessità di dare a questa struttura una valenza scientifica significativa, si riduce anche il concetto di relazione metrica al più semplice concetto di prossimità.
Ignorando in prima istanza la variabile tempo, l'immagine che ne deriva è quella di un grafo, in cui un numero finito di punti possono essere contrassegnati a coppie come prossimi:
Tale immagine di spazio è comune a molte teorie di frontiera di questi ultimi trent'anni, si pensi alla Loop Quantum Gravity o alla teoria dei Causal Sets. In tali teorie vengono fatte ipotesi spesso meno restrittive. Con i Causal Sets, per esempio, la finitezza globale è sostituita da un interessante concetto di finitezza locale che lascia aperte le porte a topologie più varie inclusi spazio-tempo illimitati.
L'approccio delle pere, tuttavia, è meno interessato a candidarsi come teoria ragionevole del mondo e più come semplice modello filosofico di studio del concetto di spazio e tempo e ci si concederà, di conseguenza, più libertà nel definire i confini d'azione.
Al contrario, entrambe le teorie citate puntano direttamente a rappresentare concretamente lo spazio-tempo tradizionale ed essere fondamento delle teorie classiche. Ciò avviene con una scelta molto specifica dei grafi adottabili come buoni rappresentanti della realtà. LQG è costruita sulla base di una triangolazione alla Regge di uno spazio tridimensionale dato come prerequisito e con i Causal Sets, in modo simile, si discutono le configurazioni di punti da cui possa ragionevolmente emergere lo spazio-tempo continuo tradizionale.
Nel gioco filosofico delle pere invece non si aggiungono ulteriori ipotesi restrittive sulla forma che il grafo possa assumere in quanto ciò richiederebbe nuovi apriori scarsamente giustificabili.
L'universo delle pere, ignorando la variabile tempo, è un grafo qualunque i cui spigoli rappresentano la nozione di prossimità.
La nozione di tempo può essere aggiunta in modo altrettanto elementare, introducendola a sua volta come nozione di prossimità temporale. Dati due grafi, con identico numero di punti, che si differenzino per la presenza in più o in meno di un certo spigolo, diciamo tali grafi sono prossimi temporalmente.
La scelta sul modello temporale appare per molti versi arbitraria, perché invece non ammettere l'aggiunta o la rimozione di punti? Anche in questo caso prevale una tendenza alla semplicità, la versione scelta per l'analisi appare la più banale percorribile.
I grafi così costruiti sono in grado porsi come canditati appaganti rispetto ad alcune problematiche filosofiche ma in prima istanza decisamente troppo semplici per poter essere usati come modello di spazio e di tempo. Ammesso anche di ignorare il fatto che lo spazio e il tempo appaiono definiti in forma troppo assoluta per poter essere compatibili con le istanze delle relatività; e decidendo anche di ignorare che in tale modello manca qualunque aggancio con le problematiche filosofiche poste dalla meccanica quantistica, non si capisce, in prima istanza, come un tale approccio possa anche solo lontanamente descrivere una palla che scivola lungo un piano inclinato.
Eppure, è possibile che questo modello offra interessanti approcci ai problemi citati.
Metrica e Cosmologia
La nozione di prossimità è filosoficamente appagante per la sua semplicità primordiale. Da essa emerge spontaneamente una metrica per prossimità successive. Dati due punti, è possibile considerare percorsi di prossimità successivi assegnando a questi il numero di passi necessari per percorrerli. Tra i percorsi esistenti tra due punti si definiranno geodetiche i percorsi di lunghezza minima e massima. La lunghezza dei percorsi minimi definirà la nozione di distanza tra due punti. Si osservi come la definizione data rispetti gli assiomi richiesti da uno spazio metrico in ambito matematico (positività, simmetria, disuguaglianza triangolare) se e solo se per ogni coppia di punti dello spazio esiste almeno una catena di prossimità che permetta di collegarli. Lo spazio introdotto quindi ammette casi più ampi in cui sottoinsiemi di punti “non distano” in quanto non esiste una successione di prossimità tra l’uno e l’altro. Questo è un caso di emersione di novità concettuali da un sistema finito che non hanno una controparte naturale negli approcci continui. La metrica che emerge in direzione del tempo è analoga ma non identica. La distanza tra due insiemi equipotenti di punti sarà la differenza del numero degli spigoli in uno e nell’altro. Questa definizione, apparente molto diversa dal caso spaziale ne è in realtà sostanzialmente una copia dove, in luogo di percorsi di prossimità tra punti si considerino percorsi di prossimità temporale tra insiemi di punti.
Complessivamente la metrica che ne emerge è strettamente finita. N punti non possono distare più di N passi di prossimità e quindi per N punti il diametro massimo è N. D’altra parte per N punti sono definiti al più N*(N+1)/2 spigoli e quindi tale valore è anche la massima estensione temporale possibile.
Da quanto detto derivano alcune considerazioni cosmologiche all’interno del gioco filosofico.
Scegliendo come direzione del tempo quella per cui il numero di spigoli decresce e scegliendo un grafo qualunque come punto di partenza se ne deduce che il futuro remoto del grafo consisterà certamente in una nuvola di punti senza spigoli e quindi punti che “non distano”. Il passato del grafo risulta invece in generale meno conoscibile.
L’aggiunta progressiva di spigoli comporta ovviamente un inizio del tempo in cui ogni punto risulta prossimo ad ogni altro. Un tale universo ha diametro pari ad 1, è straordinariamente denso, compatto e non contiene alcuna specificità locale, abusando ampiamente di linguaggio mutuato dalla fisica, tale universo ha entropia nulla, o minima.
Tuttavia, questo semplice scenario cosmologico non è totalmente accettabile. Nell’analisi del passato non si nono infatti considerati eventuali punti che “non distano”.
La rottura degli spigoli fa si che l’universo di partenza possa spaccarsi in due sottoinsiemi distinti, non comunicanti.
Dall’interno di un tale universo non si potrebbe che ridurre il reale al proprio troncone e quindi dedurre un passato remoto lontano quanto il numero degli spigoli mancanti nel proprio frammento.
Senza nemmeno bisogno di postulare altro fuori dal proprio universo, un abitante di un troncone non potrebbe comunque sapere se nel passato il proprio universo contenesse più punti e quindi non potrebbe avere una conoscenza se non ipotetica e statistica di quanto lontano e se ci sia mai stato l’inizio compatto dedotto più sopra.
Il gioco delle pere, nella sua banalità, comporta una storia dell’universo per alcuni aspetti concorde con le teorie del ‘900. L’inizio con una fase estremamente compatta ma a bassissima entropia e una successiva espansione. A differenza della cosmologia convenzionale, prevede un futuro remoto originale, costituito da una sorta di evaporazione progressiva con perdita di punti fino a completo disfacimento. Inoltre, il meccanismo di evaporazione impedisce di collocare esattamente nel passato il presumibile big bang.
Tempo
L’universo delle pere risolve d’amblée alcune questioni cosmologiche come l’origine del big bang e, soprattutto, il problema della bassa entropia all’origine dei tempi. D’altra parte, questa giocoleria fatta con il modello filosofico scelto non rimuove gli ostacoli più evidenti del modello stesso. In particolare, un grafo si presenta direttamente come superficie di simultaneità assoluta e questo non può che far rabbrividire qualunque fisico.
La situazione è tuttavia più complessa e sorprendente di quanto non appaia a prima vista.
Si consideri anzitutto un gioco filosofico ancora più banale. Sia data una retta discreta e due pedine, A e B, collocate inizialmente entrambe in un punto 0.
Ad ogni turno di gioco le pedine si muovono in una nuova posizione adiacente, in particolare, A segue la successione {+1, -1, +1, -1, +1, …} oscillando tra i punti 0 e 1. La pedina B invece, ad ogni turno, esegue uno spostamento verso destra di una unità.
B si muove con la massima velocità possibile, pari a una unità di tempo in un turno di gioco. A in qualche modo si comporta come un piccolo orologio che scandisce il trascorrere di due turni ogni qual volta si ritrova in 0.
Ci si chiede cosa succeda tentando di attribuire anche ad A una velocità v in modo che insegua l’altra pedina.
In generale la questione non è immediata in quanto A usa tutti i turni disponibili per oscillare e non ha modo quindi di “inseguire” B. Si può immaginare di modificare il moto di A in modo che esegua due passi a destra ed uno a sinistra e in questo modo mantenere sia una certa forma di oscillazione interna che un moto traslatorio di inseguimento.
Il tempo dell’orologio A tuttavia rallenta segnando un ciclo, ora, in tre turni di gioco anziché due.
La distanza tra A e B aumenta ora più lentamente, in quanto A insegue B ma il tempo proprio di A è dilatato. In 10 cicli completi di A (tre turni per ciclo), A finisce nella posizione 10 e B nella posizione 30. La velocità di B dal punto di vista di A sarà quindi di 20 passi in 10 cicli. E poiché per A, ignaro del proprio stato di moto, un ciclo consta di due turni, la velocità di B per A è sempre di 1 unità per turno.
In questo modello esiste una velocità massima e tutti gli osservatori misurano il medesimo valore per tale velocità, indipendente dal loro reciproco stato di moto. La gestione quantitativa della cosa mostra un comportamento lineare ma estendendo il gioco a pedine in tre dimensioni si osserva come A subisca una contrazione spaziale e una dilatazione temporale esattamente coerenti con le trasformazioni di Lorentz.
Ciò che è davvero sorprendete in questo nuovo gioco filosofico è che lo spazio e il tempo sono definiti in forma rigorosamente assoluta, propria della meccanica Newtoniana, è la forma discreta dei passaggi ad innescare i fenomeni relativistici.
Tutto ciò porta a guardare con sospetto ad esternazione troppo semplicistiche quali “La relatività dimostra la natura intrinsecamente relativa dei concetti di spazio e tempo, rimuovendo qualunque ipotesi di esistenza ontologica in sé”.
Al contrario porta a guardare con interesse ad istanze filosofiche quali quelle espresse da Lee Smolin in “Time Reborn”.
Il modello delle pere non contiene pedine sulle quali fare ragionamenti come quelli esposti. Tuttavia, si consideri due grafi distanti una unità spaziale, cioè, due grafi identici in cui due punti A e B sono collegati in un caso e nell’altro no.
Questa definizione di tempo è radicalmente locale. Dato un intorno che includa A e B, nei due grafi, è lecito affermare che i due intorni distino una unità temporale ma per i rispettivi insiemi complementari è altrettanto lecito affermare che non sia trascorsa alcuna unità temporale, essendo del tutto identici. In questo senso un grafo rappresenta solo in senso molto lato una superficie di simultaneità.
Inoltre, ci si può aspettare che, comunque si possano definire pedine e orologi in tale gioco si ripresentino i meccanismi descritti sopra vedendo apparire in modo naturale la presenza di una velocità limite identica per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro stato di moto relativo, con la catena di conseguenze tipiche della relatività ristretta.
Un universo adimensionale
La rappresentazione formale dello spazio nasce dalla fusione di due strutture matematiche distinte, gli spazi metrici e gli spazi vettoriali. I primi contengono la nozione di distanza e la ricchezza puntuale dello spazio stesso. I secondi, gli spazi vettoriali, modellano il concetto di dimensione. L’universo delle pere è spontaneamente dotato di metrica e non contiene nulla che si possa ricondurre direttamente al concetto di dimensione.
Ma l’idea di dimensione spaziale è davvero necessaria? Esiste una relazione sottile sta spazi metrici finiti e adimensionali e usuali spazi vettoriali normati. In un certo senso la geometria differenziale può emergere dai primi.
Si consideri un grafo banalissimo costituito da 4 soli punti A, B, C, D collegati in relazione di prossimità come i vertici di un quadrilatero.
Le distanze AC e BD varranno 2, per ogni altra coppia la distanza sarà 1.
Non è possibile scegliere su un piano euclideo 4 punti che rispettino la metrica del grafo, tuttavia è possibile flettere tale piano, introducendo una curvatura locale permettendo così di ottenere il risultato:
In un certo senso quindi, uno spazio bidimensionale curvo emerge dal grafo ABCD.
Ci si rende conto facilmente che la chiave del ragionamento applicato è ripetibile per qualunque grafo planare.
Da qualunque grafo planare emerge almeno uno spazio 2D curvo.
L’ultimo tassello del ragionamento riguarda il fatto curioso che qualunque grafo può essere rappresentato in 3D senza che due spigoli si incrocino e quindi da qualunque grafo può emergere uno spazio 3D curvo.
Filosoficamente la questione è piuttosto intrigante.
Il mondo che ci circonda è, almeno alla nostra scala, certamente tridimensionale e questa certezza deriva dalle profonde differenze geometriche tra spazi di dimensioni diverse.
Un simplesso in 3D ha esattamente 4 vertici, e solo in 3D un simplesso ha 4 vertici. Solo in 3D è possibile saldare al più 3 barre di acciaio che siano mutuamente perpendicolari. Solo in 3D una sfera ha volume 4/3pir3. E così via, è possibile determinare una quantità di fenomeni semplicemente misurabili che rendono la questione indiscutibile.
Esistono varie teorie che ragionano su spazi a dimensioni eccedenti, si pensi all’ipotesi di Kaluza e alla teoria delle stringhe, ma in oggi caso si introducono meccanismi per ripristinare lo spazio tridimensionale usuale, almeno alla nostra scala, essendo tale stato di cose inopinabile.
Tuttavia, i ragionamenti sulla metrica finita fatti sopra, aprono alla possibilità filosofica che il concetto di dimensione sia sovrabbondante; che sia un carattere interpretativo emergente di una realtà di fatto adimensionale.
Questo approccio ha notevoli implicazioni ontologiche. In premessa si è scelto di concentrare l’attenzione sullo spazio- tempo in sé evitando di voler collocare al suo interno entità dotate di una qualche realtà separata.
Da quanto congetturato in seguito, tale posizione sembra diventare necessità.
Cioè, detto altrimenti, una piramide reale, cioè un simplesso 3D va rivisto come interpretazione o oggetto emergente di uno spazio metrico curvo. Non solo si è portati a considerare emergente la natura vettoriale dello spazio, ma le “cose” stesse assumono giocoforza la medesima natura.
Riassumendo, da uno spazio metrico finito emerge uno spazio 3D curvo e quindi ricco di materia ed energia secondo le equazioni di campo di Einstein.
Tutto ciò riporta all’osservazione che la metrica in sé è un oggetto ricco in grado di incapsulare puntualmente informazione interpretabile come “ecco un protone”. Forse in forma un po’ sorprendete uno spazio metrico finito, apparentemente più povero di una ricca geometria differenziale può essere la causa prima di quest’ultima e quindi delle cose e di ciò che chiamiamo “esistente”.
C’è una certa inversione di punto di vista nel gioco delle pere. Si passa dal cercare di determinare l’evanescente natura dello spazio e del tempo dal punto di vista di noi stessi (le cose) che vivono in essi, all’ipotesi che spazio e tempo altro non siano che ciò che è immanente e che, al contrario, sia alle cose e a noi stessi che vada attribuita una natura evanescente.
Atomi
Il passaggio dalla metrica del grafo alla geometria differenziale, per come è stata definita, ha una natura non univocamente determinata. Cioè da uno stesso grafo potranno emergere in generale molti spazi 3D curvi diversi.
È legittimo aspettarsi che per un grafo con molti punti la topologia complessiva risulterà grossomodo stabile negli spazi emergenti, ma puntualmente ciò non sarà in generale vero.
Dato un grafo G esisterà un insieme in generale infinito di metriche 3D emergenti:
Dove per la metrica g si sono usati indici in lettere latine ad indicare l’inclusione delle sole variabili spaziali.
Abusando, di nuovo, del linguaggio propriamente tecnico scientifico si può riscrivere tale relazione come:
Cioè, dal grafo G emerge una struttura interpretativa a rigore complessa che può generare ambiguità del tipo “Ecco un elettrone lì” ma altrettanto bene “No, l’elettrone è in realtà là”.
Il gioco filosofico apre quindi ad una possibilità interpretativa originale dei problemi posti dalla meccanica quantistica.
Se lo spazio e il tempo hanno un peso ontologico ben più rilevante dei fermioni, ora ripensati come interpretazioni emergenti, nulla vieta di per sé che tale interpretazione possa essere profondamente ambigua, anzi, l’ipotesi di emergenza delle dimensioni e quindi delle cose sembra comportare giocoforza che esistano livelli in cui tali oggetti mostrano la propria natura evanescente.
L’interpretazione della MQ che ne deriva è a suo modo intrigante. Da una parte ha tutto il sapore di una interpretazione a variabile nascoste. Dietro le quinte di un tipico esperimento viene collocato uno spazio-tempo sorgente dell’esperimento stesso. Dall’altra il tipo di variabili nascoste ha una natura nuova, non si tratta infatti di proprietà nascoste di questa o quella particella, ma è il tessuto stesso in cui di tale particella si afferma l’esistenza ad essere oggetto di interesse.
Ne deriva la possibilità interessante che sia Bhor che Einstein avessero sostanzialmente ragione nel loro celeberrimo confronto. Da una parte la meccanica quantistica potrebbe essere incompleta, nel senso che potrebbe esistere una teoria di livello più profondo che sarebbe presumibilmente molto stravagante rispetto a quanto siamo abituati e che soprattutto, non tratterebbe direttamente di campi e particelle. Dall’altra parte la meccanica quantistica potrebbe essere contemporaneamente completa, nel senso di descrizione ottimale, non sostanzialmente migliorabile, di quelle che vengono ora riviste come osservabili intrinsecamente evanescenti.
Ontologia 2
L’idea centrale di quanto scritto è che un cambio di prospettiva ontologica può portare interessanti benefici nella costruzione di un’immagine del mondo. Rovelli e Vidotto scrivono: “The formulation of the gravitational field as a pseudo-Riemannian metric cannot be fundamentally correct, because it does not allow coupling to fermions, and
fermions exist in the world. For this, we need the tetrad formulation.”. In parole povere, la proposta di questo scritto è di accettare, al contrario, che i fermioni non esistano.
La fisica delle pere è quindi un modello filosofico giocattolo in cui si prova attivamente a riflettere su cosa questo voglia dire fattivamente.