Don Canuto Toso racconta quei trevigiani che passarono di nascosto le Alpi
«Quando i clandestini eravamo noi»
Mentre la popolazione d’Italia decolla per la presenza di stranieri e qualcuno già dice che sono «troppi»
«Ma noi cosa dobbiamo fare quando veniamo a contatto con un clandestino? Dobbiamo denunciarlo, accoglierlo, cosa?...», chiede la proba cittadina in biblioteca a Villorba, dove si sta presentando il libro «Una memoria per gli emigranti», raccolta di interviste sull’emigrazione a cura di Carlo Silvano per la collana “Questioni di identità” di Ogm editore (pp. 96, euro 10, distribuito dalla Tredieci tel. 0422 440031). Don Canuto Toso allarga le braccia, spiega che «innanzitutto deve venire l’ascolto, poi il consiglio». E ricorda quando eravamo noi, italiani, veneti, trevigiani, i clandestini. Certo non in America o in Australia, Paesi raggiungibili solo prendendo un “piroscafo” e con i documenti in ordine. Ma in Francia o in Svizzera, valicando le Alpi di nascosto, sùbito in balia di sfruttamento e ricatti. E tutta la retorica sul fatto che «noi andavamo all’estero regolarmente, non come questi qua...» va in frantumi. Sul tavolo, i quotidiani raccontano che, «per colpa» degli immigrati, l’Italia ha superato i 60 milioni di abitanti e che, con la crisi che galoppa, queste presenze sarebbero «troppe». Con, in più, il problema dell’integrazione. «Ci lamentiamo ora del fatto che gli stranieri non si integrano abbastanza - dice don Canuto - Ma ci dimentichiamo il fatto che noi fummo costretti ad integrarci, ad esempio in Francia, anche troppo. Così da cancellare tutto ciò che di buono ci portavamo da casa». Tra i fondatori dei Trevisani nel Mondo, poi eminente figura della Caritas tarvisina per... il flusso inverso, ovvvero per l’immigrazione nella Marca, don Toso racconta la “voglia” che i trevigiani emigrati in Australia e in Canada manifestarono, negli Anni ’60, all’apparire di un prete che parlava il loro dialetto, che predicava “facendosi capire”. Integrazione non significa ricusare storia, lingua, dialetto, tradizioni. Il fatto di aver mantenuto forte il legame con il Paese di provenienza - dice il sacerdote degli emigranti - non ha impedito ai nostri trevigiani di dare apporti anche determinanti alle nazioni straniere che li hanno ospitati. Valga solo l’esempio di alcune zone dell’Australia, del Canada, del Brasile, del Venezuela, dove i trevigiani hanno contribuito in modo fortissimo alla crescita economica e sociale». Scorrendo il libro di Carlo Silvano e le sue interviste, si possono avere delle sorprese «forti». Come il racconto di don Riboldi, futuro vescovo di Acerra, che personalmente in Svizzera vide, all’esterno di un bar, il cartello «vietato l’ingresso ai cani e agli italiani» che qualcuno crede sia solo retorica.
Oppure il racconto di Cesare Santi e Michela Nussio che narrano la realtà poco nota degli svizzeri di lingua italiana costretti, con grande sacrificio, ad emigrare, per la povertà delle loro valli, verso l’Italia. Un po’ come se domani i pugliesi varcassero l’Adriatico per emigrare, in cerca di pane, in Grecia, Albania e Kosovo. Interessante anche la dissertazione di Domenico Airoma, consigliere di Corte d’Appello, sul difficile rapporto della legge islamica con quelle vigenti in Occidente. (Antonio Figo, "La Tribuna" di Treviso, 29 aprile 2009) Altre info su http://www.questionidiidentita.blogspot.com/