Ritratti. Mi è impossibile non tracciare mentalmente il ritratto di qualcuno mentre lo penso, così come mi è impossibile distogliere l’attenzione da certi particolari mentre gli sto davanti.
I tratti del volto con le sue ombre, le mani, il modo di sedere, la gestualità, l’intonazione della voce, le pause di silenzio, il moto ondoso del carattere che tutto conduce.
Mio padre dipingeva e amavo starlo a guardare.
Di nascosto, quando era in ufficio, accostavo il naso alle sue tele per sentire l’odore dei colori che cambiava a mano a mano che la tela asciugava. Oppure mi divertivo ad avvicinarmi piano e veder sparire l’immagine intera, immergendomi nei singoli rigagnoli di colore fino a che non rimanevano a fuoco che i solchi lasciati dal pennello nel colore denso.
Mi piaceva l’odore dell’olio di lino, caldo e pesante, quello pungente della trementina e dell’acqua ragia. Anche gli stracci che servivano per pulire i pennelli o per fare correzioni sulla tela avevano il loro odore speciale.
Copiava nature morte e paesaggi. Aveva parecchi libri con le riproduzioni dei quadri delle correnti pittoriche più famose, ma la sua attrazione unica e forte, ora lo capisco, erano gli impressionisti italiani.
Raramente trovava il coraggio di mettere sulla tela cose sue, una sola volta, da una fotografia, mi fece un ritratto.
Nascose il quadro fino a che non fu finito.
Ricordo perfettamente lo sgomento che provai nel momento in cui lo ebbi tra le mani.
Quel ritratto ero io! Ma non la me fisica, quella che potevo vedere riflessa nello specchio del bagno ogni volta che volevo, era una me profonda ed invisibile.
Per giorni lo confrontai con la foto dalla quale era stato ricavato e la mia immagine allo specchio, ma per quanto cercassi quello sguardo non si trovava, eppure sapevo che era mio che mi apparteneva e non riuscivo a spiegarmi come mio padre lo avesse colto.
Non avevo nemmeno cinque anni.
Presto cominciai ad imparare a tenere in mano i pennelli, e spesso lavoravamo insieme a qualche quadro.
La mia passione erano le matite, i carboncini, i pastelli a cera.
Il bianco e nero erano l’accesso ad un mondo immenso ed inaspettato nella sua estrema semplicità.
Alle scuole medie arrivò inevitabile la tecnica. Il prof. Bianchi, così si chiamava l’insegnante di disegno, era un uomo basso, calvo con l’anima secca come una scopa di saggina vecchia.
Non ci insegnò molto ed il giorno dell’esame di licenza, a sorpresa perché mai fatto prima, arrivò – vero bastardo - con un gran piatto ed una brocca che mise sulla cattedra, poi sistemò le persiane finché non gli sembrò che la luce fosse giusta e disse: lavorate.
Ricordo bene il brivido di spavento delle mie compagne.
Il mio lavoro, ovviamente, fu tutto a carboncino. Quando ebbi finito ero veramente contenta, un ottimo lavoro di proporzioni, luci e ombre e con vera soddisfazione lo proposi al prof. che con una leggerissima smorfia mi disse: “si ottimo! ma così non te lo passo! devi usare i colori”.
“I colori! I colori! Perché i colori se io lo vedo così? Se è uscito da me così? “ Non mi rispose nemmeno, girò sui tacchi e se ne tornò al suo posto.
Non avevo scelta, e così usai i colori e uccisi il mio lavoro.
Come prosecuzione degli studi, viste le doti, mi consigliarono il liceo artistico.
Non ho mai più disegnato.
Ritengo che un quadro è sempre un’opera incompiuta, un eterno divenire.
L’occhio che oramai vive in quell’infinito microcosmo coglie sempre un impercettibile vuoto da colmare.
lunedì, 27 mar 2006 Ore. 19.19