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Allo specchio. Racconto di Giorgio Merlonghi


Allo specchio
 
Un racconto di Giorgio Merlonghi

Arrembaggio: OK, sono a bordo del bus. Come al solito, osservo gli altri passeggeri. Due metri più in là, intravedo una ragazza col viso color caffellatte e denti bianchissimi appena sporgenti, custoditi gelosamente da labbra scure.

Indossa un cappellino a scacchi grigi e rosa, e sopra la stoffa ha inforcati gli occhiali da sole. Paiono sfuggiti alla cattura degli occhi per rifugiarsi sul capo, con le stanghette distese lungo le tempie, come una rondine afferrata alla grondaia. Da sotto la falda del copricapo, escono ciuffi di capelli schiariti: hanno la consistenza della paglia e la lucentezza di fili di rame.
Per un momento, distolgo lo sguardo da quel viso. Fuori, le macchine si inseguono con rinnovato slancio competitivo, assediate da nubi ronzanti di motorini, isterici e impazienti come moscerini d'uno sciame estivo. Torno a guardare la ragazza.

I suoi occhi si sono fatti improvvisamente lucidi, rigonfi. Abbassa gli occhiali sul naso. Indovino senza sforzo che quella tensione lieve che scuote la bocca carnosa, quello strofinio dei polpastrelli appena sotto le lenti nascondono l'eruzione di grosse lacrime di pianto, frutto liquido di pensieri tristi.
A cosa serve la prossimità dei corpi se non corrisponde a una vicinanza delle anime, a un accorciamento della distanza che ci divide dagli altri? Mi convinco ancora una volta che questi viaggi interminabili sul bus devono rappresentare un momento per scambiare esperienze con chi ci é occasionalmente vicino. Esiste un obbligo e insieme una necessità di condividere qualcosa: sorrisi, racconti, sogni notturni. Vorrei parlare con la ragazza, chiederle cosa posso fare per lei, se ha bisogno di confidarsi.

La folla sul bus ondeggia. A ogni fermata, un flusso casuale di individui si dirige verso le porte e si rifugia sul marciapiede. Sulla vettura si crea posto per una nuova ondata di passeggeri, ugualmente estranei, alienati, silenziosi. Dovrei approfittare di quella piccola marea umana per avvicinarmi alla ragazza e dirle qualcosa. Intanto, formulo ipotesi di discorsi improbabili e paternalistici: "Lei non è felice ma si ricordi che abbiamo bisogno e diritto di esserlo. Dobbiamo volere bene a noi stessi, avere il coraggio di farlo. Se la sua storia sentimentale non funziona, cambi compagno; se il lavoro la delude, cerchi altrove; se la sua famiglia la opprime, pensi a crearne una nuova, che le corrisponda maggiormente".
Invece, continuo a rimanere muto. Prevalgono gli antichi istinti: la timidezza, il conformismo, l'estraneità.
D'un tratto, la ragazza riceve una telefonata.
Ascolto le sue risposte.
"Sì"
"No"
"Tutto bene, non ti preoccupare"
"Sì, OK. Ci vediamo stasera. Ciao"
Appena attacca, riappare il rigo umido di una coppia di lacrime. Chi era al telefono? Mi convinco che fosse l'uomo che la fa soffrire, il nemico, il mostro. Forse il padre ingrato del suo bambino, colui dal quale deve allontanarsi, quello che la sfrutta senza meritarla. Devo consigliarla, aiutarla, salvarla. Sento montare in me il coraggio, avverto l'accelerazione vorticosa che anima gli eroi.
Ma senza preavviso, alla fermata successiva, la ragazza si accoda al flusso di passeggeri in discesa. È il momento di dire qualcosa, qualsiasi cosa, adesso o mai più, presto, presto. Provo a farmi leggermente avanti. "Scende alla prossima?", mi chiede la ragazza.
"No, prego", rispondo, ricacciandomi da un lato.
Andata. Finita. Non ho detto nulla, non ho fatto nulla, e ora è troppo tardi.
Mi illudo che la ragazza esiti un attimo, come se cogliesse in un brivido l'offerta di soccorso che intendo proporle. Quando il bus si muove nuovamente, il suo profilo si confonde col traffico mattutino.

Adesso è il mio cellulare a squillare. Il piccolo video fosforescente lampeggia: Susanna.
Esito; poi rispondo controvoglia. La nostra storia è ormai logora e a tratti mi sembra di intravederne con lucidità l'implosione finale e inevitabile: una supernova domestica.
Susanna è carina, affettuosa, tipico ritratto di giovane donna volitiva e sensibile. Chiunque ne rimane conquistato. Per lei, tutti trovano parole di lode; per me, espressioni di incoraggiamento e augurio. Una ragazza per bene, una compagna allegra e fedele, la madre dinamica di figli ideali.
Sento che la nostra storia soffre per causa mia. E anche Susanna soffre. Solo che lei, diversamente da me, cerca di trovare una soluzione. Si interroga col suo solito modo, delicato e concreto; si rafforza in me la sensazione che Susanna non avrà mai paura delle avversità, che sarà sempre capace di sconfiggere la bestia malefica guardandola dritta negli occhi, senza temerla, senza sfidarla inutilmente. Alla fine, esiste un solo verdetto: il mostro illogico e spietato sono io.
"Ugo, sei tu?"
Io: "Sì"
"Sei arrabbiato con me?"
Io: "No"
"Allora cosa c'è che non va? Lo sento nella tua voce..."
Io: "Tutto bene, non ti preoccupare"
"Promettimi che stasera parliamo di noi, ci raccontiamo un po' di cose"
Io: "Sì, OK. Ci vediamo stasera. Ciao"
"Un bacio"
Il bus sta decelerando.
"Scende alla prossima?", chiedo istintivamente.
"No, prego", mi risponde una voce di donna, lontana e gentile. Avverto un brivido strano, come se da quella voce possa finalmente venirmi l'aiuto che non so trovare altrove.

Pubblicato in "Parole in corsa", concorso promosso da TRambus e ATAC Spa giunto alla sua terza edizione.
 
lunedì, 06 feb 2006 Ore. 18.59
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