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Anno 2007
Anno 2006
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Martiri di Algeria: contemplare con Dio i suoi figli dell'Islam come lui li vede
Le parole di Emanuele il Paleologo, citate da papa Benedetto XVI, hanno creato nel mondo islamico reazioni a catena che ancora, anche se molto meno, non si sono del tutto spente. Sono, poi, seguite precisazioni per il fraintendimento ed esplicitazioni che hanno portato il papa a ribadire che quell'affermazione non rispecchiava in maniera assoluta la sua visione dell'Islam. Anzi. Ne erano una riprova i diversi interventi improntati al rispetto e alla stima. Ammesso pure che le parole della citazione fossero forti, mi chiedo, invece, in quale categoria rientravano quelle pronunciate dal trappista frère Christian da meritare la morte in Algeria insieme ai suoi 6 compagni? Le sue sono state parole che ancora oggi spiazzano e disarmano (cristiani e no). Sono o non sono il top di chi ha capito che non con la spada o i ragionamenti sottili si "conquistano" terre e genti ma solo con una fede, che nasce dall'amore e sa farsi dono, presenza accanto? In quest'ora, in cui le parole risultano inadeguate e passibili di fraintendimenti, quale forma di comunicazione andrebbe "promossa"? Se, infatti, si constata che le parole umane non sono più affidabili, è possibile, invece, che lo siano la vita e la morte dei 7 monaci? Il loro dono è stato una testimonianza, nel senso forte della parola, che interroga tutti, perché sgorga dalla sorgente dell'amore e a null'altro tende se non a «stabilire la comunione e il
ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze».
UN PO DI STORIA E LE PAROLE CHOC DI FRERE CHRISTIAN Nel
maggio di dieci anni fa, in Algeria, sette trappisti cadevano sotto i
colpi degli integralisti islamici, testimoni di un'autentica fede in
Dio e di una profonda amicizia verso il popolo algerino. Ma quale
eredità spirituale hanno lasciato alla Chiesa universale? E come il
dialogo islamocristiano può oggi trarre ispirazione dalla loro
testimonianza? Così scriveva frère Christian nel suo
testamento: «ecco che (ucciso) potrò, se piace a Dio, immergere il mio
sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli
dell'Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di
Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la
cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il
ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
ARTICOLO
«Memoria evangelica della Chiesa», così il gesuita padre Jean-Claude
Guy aveva definito la vita religiosa e monastica in particolare: ne
aveva colto la fecondità delle origini e il suo progressivo dilatarsi
all'interno di una Chiesa che usciva dalla stagione del martirio di
sangue ed entrava in quella che sarebbe diventata la plurisecolare
epoca della cristianità. «Memoria evangelica» perché con il loro
«essere», prima ancora che con il loro «agire», i religiosi ricordano
alla Chiesa alcune istanze dell'Evangelo che rischiano, nel succedersi
delle epoche storiche, di finire trascurate, dimenticate, quando non
contraddette. Nel
maggio di dieci anni fa, in Algeria, sette trappisti cadevano sotto i
colpi degli integralisti islamici, testimoni di un'autentica fede in
Dio e di una profonda amicizia verso il popolo algerino. Ma quale
eredità spirituale hanno lasciato alla Chiesa universale? E come il
dialogo islamocristiano può oggi trarre ispirazione dalla loro
testimonianza? Nell'anniversario della scomparsa, Popoli ne
ricorda il martirio cercando nelle loro parole e in quelle di chi li ha
conosciuti un germe di speranza per un mondo che sembra lacerarsi in un
inutile scontro di civiltà.Ed è a questo tipo di «memoria» che ci rimanda la
ricorrenza del decimo anniversario del rapimento e poi dell'uccisione
dei sette monaci trappisti di Notre-Dame de l'Atlas a Tibhirine, in
Algeria. Frère Christian, il priore, e i suoi confratelli Luc,
Christophe, Michel, Bruno, Célestin e Paul caddero «vittime del
terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che
vivono in Algeria», come scrisse nel suo testamento - un testo di
pregnanza cristiana paragonabile a quella che emerge dagli Acta Martyrum
dei primi secoli - frère Christian nel dicembre 1993-gennaio 1994, dopo
la prima, seria minaccia da parte degli integralisti di matrice
islamica. I sette monaci furono gli ultimi di 18 religiosi e religiose
vittime di una violenza cieca; dopo di loro cadde ancora il vescovo di
Orano, il domenicano padre Pierre Claverie, assassinato assieme al suo
giovane autista musulmano al ritorno da una celebrazione in memoria dei
sette monaci dell'Atlas.Eppure, ciascuna di queste vittime, così
come ognuno dei pochi, umili, ma fieri cristiani rimasti in Algeria, a
cominciare dall'arcivescovo di Algeri, monsignor Henri Teissier, ha
fatto proprio con la sua vita quanto scriveva ancora frère Christian
nel testamento: «Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse,
chiameranno la "grazia del martirio" il doverla a un algerino, chiunque
egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede
essere l'Islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare
gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell'Islam che
un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la
coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei
suoi estremisti. L'Algeria e l'Islam, per me, sono un'altra cosa: sono
un corpo e un'anima».Parole, queste, che paiono scritte ieri e
che invece precedono di otto anni quell'11 settembre che molti
continuano a considerare uno spartiacque nella nostra epoca. Parole che
in realtà si fondano su un quotidiano, instancabile, agire gli uni
accanto agli altri, in un costante impegno a fare dell'altro un amico,
a trasformare l'hostes, l'avversario, in hospes, l'ospite
accolto nella propria casa, nella propria mente e nel proprio cuore.
Solo pochi mesi fa, con la tragica uccisione di don Andrea Sartoro a
Trabzon in Turchia, questa testimonianza fino al sangue di qualche
cristiano in Paesi dove la Chiesa è ridotta a una sparuta minoranza è
tornata a scuotere nel profondo non solo chi ne condivide la fede, ma
anche quanti, ormai allontanatisi dalla fede e dalla pratica cristiana,
misurano cosa significhi vivere e testimoniare il proprio credo in un
contesto, se non ostile, perlomeno indifferente. Sì, percepiamo
qualcosa della portata di termini come «cristianità», «religione
civile», «radici cristiane» o ancora «piccolo gregge», «lievito», «sale
della terra», quando la brutalità di alcuni eventi sconvolgono i nostri
ragionamenti e ci pongono di fronte all'apparente «follia»
dell'Evangelo. Allora, volenti o nolenti, capiamo che nell'annuncio
della buona notizia il «modo» di testimoniarla non fa parte di
strategie di mercato né di calcoli di potere, bensì ha a che fare con
il contenuto stesso della fede.Dei sette monaci dell'Atlas i
giornali francesi scrissero che la loro vicenda aveva «rievangelizzato»
la Francia intera. In questo senso possiamo riprendere l'adagio
patristico che vedeva nel «sangue dei martiri il seme dei cristiani»:
guardando le vicende umane con lo sguardo di Dio, da autentici
«contemplativi», possiamo discernere la fecondità della buona notizia
evangelica tra gli uomini e le donne del nostro tempo, al di là di
divisioni e differenze. Così scriveva ancora frère Christian nel suo
testamento: «ecco che (ucciso) potrò, se piace a Dio, immergere il mio
sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli
dell'Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di
Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la
cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il
ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze». Il XX
secolo è stato tragicamente fecondo di testimonianze rese all'unico Dio
fino a versare il sangue e, sovente, rese in una luminosa comunione di
martirio che cancellava nelle atroci sofferenze di lager e gulag
qualsiasi separazione confessionale. Questo sguardo sull'umano
dispiegarsi della fede nel Dio unico riuscirà forse a far balenare
qualcosa di quella che sarà «la visione di pace» che ci sarà dato di
contemplare nella pienezza dei tempi. In questi ultimi decenni
l'intrinseco legame tra vita cristiana quotidiana e testimonianza fino
al martirio è tornato a brillare al cuore stesso della Chiesa, dopo che
per quindici secoli era rimasto confinato nelle estreme regioni della
missione. Uomini e donne forti solo del loro battesimo, catechisti,
religiose, monaci, vescovi, seminaristi hanno testimoniato fino al
compimento della «vita donata» la radicalità della loro sequela del
Signore Gesù. Certo l'irrompere del martirio in una Chiesa che si
scopre minoranza senza le più garanzie fornitele da una società
cristiana provoca timore, sbandamento, insicurezza... Ma sono questi i
sentimenti che devono abitare quanti non desiderano più nulla per se
stessi e hanno a cuore l'annuncio dell'Evangelo? Così scriveva frère
Christian: «Insicurezza? È una grazia di fede. La più scomoda per chi
pensa solo a dormire. La più adatta alla vigilanza... A Cristo è stato
proposto di scegliere tra due stabilità: il trono o la croce. Cristo ha
scelto la croce: ne ha fatto il suo trono, lo sgabello del suo regno.
Purtroppo nel corso della storia la Chiesa ha spesso preferito il
trono. Soprattutto dopo che l'editto di Costantino ha reso la croce più
diffusa e il trono più complice». Davvero questa «insicurezza», questo
ritorno della possibilità del martirio è un grande segno per tutti,
dentro e accanto alla Chiesa: cristiani di ogni latitudine e
confessione mostrano ai loro fratelli in umanità che val la pena di
vivere perché val la pena di morire per Gesù Cristo e che essere
battezzati è una cosa seria, il «caso serio» che arriva a determinare
la stessa morte fisica. La sofferenza fino alla morte, accettata
nell'amore anche per il nemico, è l'estremo rifiuto della logica
dell'inimicizia, l'unico atto che può porre fine alla catena delle
rivalse e delle vendette. Con il martirio, un cristianesimo che sembra
in difficoltà nel comunicare con gli uomini di oggi ritrova, in una
«grazia a caro prezzo», la capacità di suscitare domande e di
inquietare le coscienze. Come annotava Ignazio di Antiochia alla fine
del I secolo, mentre era condotto al martirio a Roma, è nelle
situazioni in cui il cristianesimo è odiato e avversato che emerge con
forza la sua vera natura, il suo essere «non opera di persuasione, ma
di grandezza». Sì, per il ritrovamento di questa ricchezza
perduta dobbiamo essere grati alla folla di testimoni di ogni lingua,
razza, popolo e nazione che hanno versato il sangue per Cristo, facendo
di tutta la loro vita una costante «memoria evangelica della Chiesa».
Il loro sacrificio suona anche giudizio per noi: siamo consapevoli che
questi fratelli, nostri contemporanei, affrontavano per amore di Cristo
le sofferenze, la tortura, la morte violenta nello stesso contesto
storico in cui noi siamo tentati di accondiscendere alle lusinghe della
mondanità e cerchiamo di rendere il cristianesimo più comodo, finendo a
volte per depauperare quella fede che sola vince il mondo?
Guido Dotti Monaco di Bose
venerdì, 22 set 2006 Ore. 07.12
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